Ri-generare. Strategie per una città inclusiva e competitiva

panorama Paternò

La città storica – vissuta lentamente – accoglie tra le sue pieghe: odori, suoni, ricordi. Lo spazio si lascia attraversare dal nostro sguardo, che oscilla tra l’orizzonte finito – fatto di case, cortili e palazzi – e il vertiginoso smarrimento che ci avvolge, quando guardiamo il cielo, incorniciato da torri di pietra.

Si sovrappongono, nella nostra mente, i ricordi della banda musicale, che raccoglie come per magia tutti i bimbi in strada. Gli odori della cucina, che invade l’aria e profuma di pane, di caponata e di castagne. Le voci delle mamme, delle nonne e dei venditori di frutta. La città racchiude un microcosmo di relazioni umane, un palinsesto di sguardi, di attraversamenti, di soste. Un reticolo di luoghi per il commercio, per la festa, per Dio, per il gioco. Attraversare e sostare. Incontrare e scambiarsi qualcosa: un sorriso, un comando, una preghiera, una merce. La luce, che governa le cose degli uomini, ruscella lungo le pareti intonate delle case, invade i cortili di pietra e attraversa gli alberi. E le donne alla sera si ritrovano nei cortili a raccontare storie impossibili di altre donne, di altri luoghi di altri tempi.

Ancora oggi è possibile – tra le macerie dei nostri centri storici – trovare le tracce di questo mondo. Nascosto nei dedali della città storica si conservano riti e liturgie urbane. Quell’Umanità – che sembra essersi persa sull’altare di una “società liquida, iperconnessa ed “esclusiva” – è ancora presente; nascosta quasi come fosse malata. In una condizione urbana di cui vergognarsi, di cui non andare fieri. “Io abito dove nessuno si fa gli affari degli altri. Io sono solo. Connesso con il mondo ma separato dai miei vicini.”

Si parla da tanto di come recuperare la città storica. Si parla di norme, di piani, di tecnicismi. Si parla di volumi, di superfici, di regole, di altezze da rispettare o superare. Si discute su chi, su come, su quando. Si paventa il terremoto, le alluvioni, i crolli, gli abbandoni. Si accusa la Soprintendenza ai BB.CC. o il Comune o la Regione, persino la chiesa di non fare o fare male. Ma nel frattempo si costruisce altrove, e si svuotano le città, si abbandona la storia, i ricordi e tutto diventa “rovina e macerie” (cit. Marc Augè).

Tutto questo ci fa riflettere. Sul successo del nostro agire nei confronti di questa parte di città. Certo, la resistenza culturale e antropologica di questa terra è forse il nemico più ostinato, ma credo fermamente che bisogna modificare il punto di vista, la prospettiva da cui guardiamo tutta la questione.

Recentemente, al Liceo De Sanctis, in occasione del convegno “città” che concludeva il lavoro degli studenti – impegnanti a narrare lo spazio urbano – alcuni sociologi dell’Università di Catania (T. Consoli e C. Colloca) hanno tracciato uno scenario interessante, in relazione al tema della rigenerazione urbana. Spesso dicono i sociologi, chi disegna città e le pianifica, dimentica la dimensione umana e relazionale dello spazio. Non considera che le pietre sono abitate e che la periferia è una condizione e non solo un luogo. Si parla di “perifericità” come condizione patologica di una parte di città – anche dentro la città storica. Una forma di marginalizzazione, quasi la creazione di un ghetto, in cui la condizione di appartenenza non è religiosa ma socio-economica.

La cura, pare sia da ricercare nella riattivazione delle relazioni. Lo spazio deve essere ridisegnato a partire dalle reti della mobilità, del commercio e della socialità. Attraversare, sostare, incontrarsi per scambiarsi merci, sentimenti e conoscenze. Le prime città della storia nascono attorno al mercato, al tempio, al magazzino, alla piazza, al palazzo del re. Nascono perché è necessario incontrarsi. Nell’era digitale tutto questo non è escluso, anzi diventa ancora più necessario e indispensabile, e la tecnologia informatica deve facilitare la fruizione dell’ambiente urbano, pensato come rete di funzioni e App, al servizio dell’uomo – pensate come smartcity (che la tecnologia serva l’uomo e non viceversa, cit. Papa Francesco,).

Ma quale è il punto di partenza?

Definire l’armatura della mobilità – pensando alla sicurezza sismica – e sovrapporre a questa la rete del commercio, delle comunità giovanili e del tempo libero (cit. Stefania Marletta). Se a questo piano, evidenziamo le polarità parrocchiali, scolastiche, culturali, civiche e sportive, abbiamo un quadro più attendibili da cui far derivare: priorità d’intervento, premialità, modalità di trasformazione ecc.

Serve quindi un approccio multi disciplinare, in cui la visione tecnocentrica convenzionale, sia sostituita da un approccio socio economico (economista e sociologo), che diventa centrale e titolare dei processi – a cui contribuiscono – per le proprie competenze specifiche: architetti, ingegneri, geometri, geologi e agronomi.

Se vogliamo rigenerare la città, in tutte le sue parti. Se vogliamo essere concreti, dobbiamo ripartire dal commercio, dalla mobilità, dalla dimensione sociologica. Dobbiamo creare un valido team, guidato da un economista/sociologo che coordini le analisi e la definizione di strategie.

Bisogna persino parlare con i grandi distributori (Abate, Eurospin, Lidl ecc. ) per delocalizzare le offerte di nicchia (bio, etno, gourmet, ecc.) in centro storico e sostenere la piccola distribuzione di qualità. Anche con i centri Commerciali Naturali, aiutando le StartApp di giovani. (e quante ne forma la scuola che potrebbero lavorare!) Bisogna portare le piccole biblioteche e i luoghi per lo studio dentro la città storica e ricavare spazi per il gioco dei bambini, che sono l’anima delle città.

Avete mai visto una città senza negozi? Senza bambini? Si, e la chiamate periferia dormitorio. Alienate e deprimenti. Se vogliamo rigenerare il centro storico non basta demolire le case vecchie, non basta consolidarle, è necessario renderlo vivo, accessibile, competitivo e per tutti. Pensate ai mercatini rionali, alle fiere, alle feste di quartiere. Qualche volta sento la città più nei quartieri come San Biagio e Scala Vecchia che in altre parti. Li c’è ancora UMANITA’

Avete mai attraversato il dedalo di strade che s’insinua nel centro storico; fatelo la domenica mattina, scoprirete l’anima della città e ricorderete ogni cosa che avete sepolto dentro di voi. Sentirete la musica e l’odore delle castagna cotte. Sentirete la città vera. Quella che è dentro di voi. In questi giorni in cui la musica accompagna la vigilia di Santa Barbara – con gruppi di ragazzi che suonano arie di festa – ritroverete le ragioni che ci obbligano a rigenerare la città storica, concretamente.

Se non vogliamo restare fermi allo stereotipo di Sicilia e di siciliani rappresentati dal principe di Salina nel Gattopardo: camaleontico nel suo immobilismo e fuori dal tempo come tante cose sue, dobbiamo pensare che “Il mondo è nelle mani di coloro che hanno il coraggio di sognare e di correre il rischio di vivere i propri sogni.” (cit. Paulo Coelho)

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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