Libri: Tre lune e un pozzo per calarsi nei sobborghi più reconditi del proprio essere

Recensione del libro Il pozzo delle tre lune di Adriano Di Gregorio, Piero Juvara e Mario Lo Giudice. Lo pubblica Algra Editore di Catania

di Alessandro Montalto

Le tre narrazioni di Adriano Di Gregorio che non hanno il solo sapore del “fatto di cronaca”, nella loro compiuta, particolareggiata e essenziale sinteticità, racchiudono davvero tanto.  In primis, la caratterizzazione ben definita dei personaggi è tratteggiata da subito e quasi se ne carpiscono l’inclinazione, il temperamento e la stoffa. Il bello, avvenente per il lettore, è pure nei dialoghi che l’autore compone, inframmezza e avvicenda, a paesaggi, veri e propri panorami ora naturali e ora familiari nonché alle classiche intramontabili scenette di vita consueta che accompagnano il lettore, anche inaspettatamente, a vivere il “colpo di scena”, elemento e sostanza peculiari della scrittura giallistica. Dialoghi che sanno di chiacchierata, di colloquio e di conversazione.
Adriano Di Gregorio cura pure il dove si sgroviglino gli avvenimenti, attraverso una particolare minuzia della flora, come il giallo della ginestra e i nomi, gli appellativi e i titoli, sia dei personaggi che dei luoghi nonché mediante i cognomi, quelli storici e talvolta memorabili, se non addirittura esclusivi e distintivi, del nostro territorio.
Ben si afferra d’esser in Sicilia e, in quest’isola, ben s’intende d’esser e vivere nel suo versante che volge a Est. A rinsaldare ciò, non è soltanto un arbusto arboreo o dell’altro di organico, ma, innanzitutto, dell’inorganico, ossia, l’Etna, già sfoggiata alle prime righe del primo dei suoi tre monili in giallo, come a voler dire e ribadire a chi porrà le proprie iridi sul foglio: «son siciliano e immagina di dove …».
L’Etna, tuttavia, è un corpo vivo e pulsante per l’autore e lo vivifica sempre più, come i suoi personaggi, tangibili e immaginari assieme. Certuni caratteri dei suoi personaggi sono tutti d’un pezzo, come il basalto che si adocchia in controluce.
Altro elemento – cardine del Di Gregorio è una capillare ironia. Si voglia fra una madre e il figlio bamboccio. Si voglia fra una donna e il gendarme che le sta dinanzi.
Dai volti, eternati dalla stilografica dell’autore, immancabilmente, si trasmigra alle successioni del loro vivere, un vivere che ci appartiene, eppure, mostrate anche in chiave psichica e introspettiva. Adriano Di Gregorio e il lettore vigile e accorto lo riconoscerà di pagina in pagina, tratteggia persino gli oggetti e le cose che contrassegnano o il personaggio o il dove in cui agisca. Ciò rivela e palesa la sua predilezione allo scrivere in giallo, noir e poliziesco.
Concludo volgendo l’ultima razione di parole e verbi ai finali delle sue narrazioni. Non sono solo un condensato di quanto narrato pagine prima, ma, anche e soprattutto, paiono essere il preludio al principio di un altro “caso”. Un caso, in giallo naturalmente, verso cui il lettore bizzarro e immaginoso saprà come leggere oltre.
Ancora e oltre quei vissuti di cui la penna di Adriano Di Gregorio ci ha deliziati e allettati.
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Non v’è solo il giallo. Se dobbiamo convenzionalmente avvalerci dei colori, com’è solito fare e spesso per collocare in determinate e predefinite categorie uno stile narrativo, come fa il naturalista con la tassonomia, allora, dovremmo affermare e ribadire che, sulla tavolozza dei colori nell’immaginario di Piero Juvara, non v’è solo il giallo. C’è ben altro e non solo. V’è quel nero, fosco e corvino, dell’impronta noir. Il grigio cinereo delle giornate uggiose e tediose affrescate con minuziosità. Quel rosso, di fiamma e vampa, tuonante e echeggiante, del nostro vulcano, la sacra montagna di Juvara e non solo del suo tanto ideale e fiabesco, quanto veritiero, Turiddu. V’è la nuance, non solo invitante, accattivante e in rosa, di quelle figure, muliebre e femminee, che fendono le pagine e che prorompono impetuose dal fondo, dipinto con altre tinte fino a poco prima. Vi sono i toni tenui dei quadretti letterari naif. Vi sono le gradazioni cromatiche della Natura.
Di quel Creato con cui è necessario, sempre, ovunque e comunque, essere in pace. E questo il Turiddu del primo racconto lo sa benissimo. Sa che nella Natura v’è il “bello sublime” (e sublime perché impetuoso) kantiano.
I verbi e i messaggi vivaci, le parole e le voci ornate di Piero Juvara non sono nettamente demarcate fra di loro bensì si attenuano, con piacevolezza, lasciandoci in una dimensione null’affatto fittizia, ma più tangibile che mai. I suoi personaggi hanno una nitida caratterizzazione, già nella brevità delle sue narrazioni. Sono personaggi del nostro quotidiano. E noi stessi possiamo essere ognuno di loro. Si voglia per predilezione o indirettamente o velatamente. I volti effigiati sono sembianze ora di un passato quasi obliato, come il ciabattino, ora di una triste mesta cronaca che è meglio scordare, come Graziella Campagna, intrappolata da una, in apparenza, banale e futile agenda di pelle. Se l’attento lettore solcherà le righe, in filigrana, constaterà che Piero Juvara alterna e avvicenda ognuno dei sette punti – chiave del giornalismo a tutto tondo, ossia, il chi, il che cosa, il dove, il come, il quando, il quanto e il perché. Un perché che, delle volte, non è esaurientemente tracciato, ma patinato e ammanierato affinché possa esser il lettore stesso a immaginare e vagheggiare, magari pescando tacitamente dal suo subconscio.
Nei suoi racconti, ora brevi, ora a più scene intervallate e con qualche dejà vu che non guasta, v’è una rappresentazione meticolosamente istoriata e a più strati che compongono l’insieme. Si distinguono scene di fondo, dettagli da costumisti, espressioni somatiche che parlano da sé. E tutto ciò senza nulla togliere alla corposità dei dialoghi. Intimi e profondi, in pochi tocchi e rintocchi e caratterizzati da inaspettate rivelazioni, se a più righe. Compiutezza testuale e esposizione visuale, in narrazioni ben circoscritte dunque, fanno intuire e intravedere un’insita tendenza al voler essere regista di un dato insieme. Non è un caso, quindi, che il nostro Juvara abbia “realizzato tre cortometraggi”. A conferma del fatto che, ogni fotogramma d’ogni pellicola che si voglia, non può che generarsi sulla carta, sol quando a un reale, unanime e assoluto, s’innesti un irreale inimmaginabile. Fra le sue pagine, si è sempre in Sicilia. Mai allontanarsi da questa! È il vernacolo del nonno di Turiddu a farcelo intendere. E talora quei volti silenti che la dicono più lunga di quanto non sembri, come capita spesso durante le parlate di noi meridionali. Nei racconti di Piero Juvara, “fatidica”, può esser anche una telefonata che rende divelte “le parabole di molte vite facendo virare lo spazio e il tempo”.
La fisicità d’una quercia, frapposta alla delirante e trascendentale voce del metafisico, possono essere i veri autentici investigatori – rivelatori d’un enigma ancora insoluto. Quel Giacomo che vuol farla finita, in sole tre paginette, ci fa comprendere come la nostra stessa tenace volontà, talvolta precorsa da qualcun altro nel suo compimento, non si attui più da parte nostra facendoci, però, riconquistare il sentiero dei nostri spazi interiori e che pareva esser smarrito. Le tessiture narrative di Piero Juvara sono, concludendo, tanto genuinamente naturali nella loro concezione quanto particolareggiatamente formulate nel suo divenire testuale.
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Il racconto di Mario Lo Giudice è qualcosa di affabilmente indefinibile. Ha un quid sotto cui v’è una quintessenza narrativa che non induce a relegarlo convenzionalmente nelle narrazioni tipiche. È un’opera originalissima e atipica che invita il lettore, giunto all’ultima riga della sua decima sezione, a cominciare dal principio. Se fatto ciò e posso assicurare che consente di scovare ben altre venature e sfumature, si scopre pure come l’autore abbia concepito e costruito un’intelaiatura scheletrica che è davvero da pochi e, forse, non per tutti.
Un solo racconto, se così può esser definito e circoscitto, veramente singolare, esclusivo, sfaccettato e poliedrico. Ogni cosa è ben intelaiata: dalla Sicilia a Roma, dal calendarizzare lo svolgersi della ben intessuta trama a quei dialoghi che comprendono espressioni e estrinsecazioni che interrogano e interpellano finanche il lettore.
Lo scrivere del Lo Giudice è a tratti un porsi esistenziale. Dà uno spaccato umano, sociale e talvolta logistico. Caspita! Non è comune rinvenire una tal siffatta orditura d’accadimenti, pensieri e introversioni catartiche e purificatorie. Un’opera in cui delle volte lo scrivere è spudoratamente veritiero.
Il personaggio che fa da fulcro vive una contesa con se stesso, in una traiettoria che lo conduce al suo ego e ai sobborghi più reconditi del suo essere. Richiami e rimandi sono i mattoni che edificano questo scritto d’una verve effervescente e inaudita.
Approda nelle incavature più remote del suo passato. Par essere uno scritto vaneggiante e allucinato, eppure, non lo è. È più realista e verista di quanto non si possa immaginare. Rievoca le pieghe e le piaghe del tempo trascorso. Le ombre psichiche e inconsce del personaggio prorompono così vigorose che quasi sembra essere e sentirsi un dannato. Solitudine e miraggi e deliri s’alternano. Volti veri e spettri dell’avvenuto s’avvicendano. Donne e uomini di un’esistenza navigata sono imprigionati nel ventre delle sue reminiscenze.
Ci si imbatte in delle allucinazioni e alla dipartita s’intrecciano le conquiste e le disfatte d’un uomo. Calca dei passi a ritroso urlando d’angoscia.
Il solo balsamo sedativo è quello del meditare su ciò che di proprio sia ancor vivo. Talvolta richiama alla mente il Bukowski disincantato, ma, ciò nonostante, Mario Lo Giudice sarà e rimarrà, sempre e ovunque, sol se stesso.
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