Incontri, la poetica della connessione tra le parti

L’idea che due parti – diverse tra loro – si possano incontrare è il pretesto per parlare di altro. E’ l’occasione – a un anno dall’inizio di questa esperienza narrativa – per presentare il tema dell’incontro. Non sempre, tra elementi della stessa sostanza, qualche volta diversi e qualche volta uguali. In questo senso l’architettura è il territorio dentro il quale si possono esplorare alcune pratiche, utili a comprendere il più ampio significato del tema. Incontrarsi, o meglio, governare l’incontro.
Un viaggio sull’allegoria del contatto, del toccarsi, dell’incastrarsi, dello sfiorarsi. Una teologia dell’incontro che in architettura è la sostanza stessa della disciplina. E da questa dedurre le implicazioni sull’universo dell’uomo. Un breve viaggio, quindi, nel mondo dell’architettura – curvato nel suo significato antropologico e sociale.
 
A partire dal Menhir (pietra lunga conficcata sul terreno), passando per il Dolmen (tomba megalitica composta da tre pietre), fino al Cromlech (il più famoso è quello di Stonehenge), l’uomo ha cominciato a governare il rapporto tra una pietra e il terreno (fisica) – tra questa pietra e la sua proiezione simbolica verso l’alto (metafisica). Ha poi compreso l’esigenza di gestire il rapporto tra le pietre – quella verticale e quella orizzontale e infine ha moltiplicato questo sistema, componendo uno spazio fisico e simbolico, per connettersi con il cosmo, con la natura e con l’idea del divino. Nasce l’architettura, come esigenza celebrativa e rappresentativa, come dispositivo di connessione, contatto tra gli uomini e gli dei, realizzato attraverso l’arte della connessione tra terra e pietra e tra pietra e pietra.
 
Da quel momento in poi, i costruttori hanno sviluppato innumerevoli dispositivi di connessione e d’incontro tra ogni cosa. La stessa evoluzione dal Mesolitico al Neolitico, si manifesta con la realizzazione di una connessione tra una pietra e un legno, per fare uno strumento di lavoro e di caccia – l’uomo comincia la sua avventura verso nuovi confini.
Giancarlo Carnevale (ex preside dello IUAV di Venezia, già docente di progetto architettonico a Palermo), diceva che tutta l’architettura, si risolve governando il rapporto tra due piani, tra due muri, tra due parti. In funzione del loro rapporto e del loro modo di incontrarsi si possono generare luoghi, incastri, rapporti, spazi. Compressioni, dilatazioni. Paure e speranze. Orizzonti e recinti. Tutto dipende da come e quando le parti s’incontrano. L’architetto in questo caso è colui che organizza gli incontri per uno scopo. Costruire macchine per abitare la terra. Cioè luoghi (collettivi, pubblici e privati) che sono conficcati a terra e protesi verso il cielo. Cioè luoghi per l’incontro con se stessi, con gli altri e con dio.
 
Capita, nelle officine, nelle falegnamerie e in cantiere di dover gestire incontri. Tra una trave e un pilastro, tra una finestra e una stanza, tra una scala e una soffitta, tra un pavimento e la terra nuda. L’incontro tra un legno e una pietra, tra un vetro e il ferro, tra un mattone e un altro. Incontri, connessioni, incastri che vanno governati. L’incontro tra uno spazio e un altro, tra un vuoto e un pieno, tra un colore e il suo complementare. Tra una stoffa e il soffitto. Infinite combinazioni, tutte gestite di volta in volta dal progetto e nel cantiere.
Qualche volta avviene anche il contrario: l’assenza di governo dell’incontro. Le cose si trovano per caso, le une vicino alle altre. E qui avviene la catastrofe, perché la superficialità del “governatore” mette a rischio l’intero sistema. Pensate a una finestra se incontra male un muro – entrerà acqua e vento. Pensate a un muro che si connette impropriamente con un altro muro – determinando uno spazio inutile e opprimente. E potremmo continuare all’infinito.
 
Quanta poesia nel curare il rapporto tra una trave di ferro e un muro. Nel punto in cui esso si fa apertura verso il paesaggio. Quanta cura nel disegnare la terra, il muro su di essa, l’architrave – di ferro – una sottile lamina che accoglie uno strato di calcestruzzo e poi ancora muro – ma di diversa natura fino alla grondaia che copre e protegge ogni cosa. Poi, allontanandosi da ogni dettaglio tutto sembra natura e artificio – armonicamente composto.
Non lasciatevi ingannare da questa descrizione – apparentemente tecnica. Tutto afferisce all’arte dell’incontro tra le parti, come allegoria della vita. Della nostra esistenza.
 
Avviene la stessa cosa tra gli uomini, tra le idee, tra i movimenti. Incontrarsi non è mai casuale, è frutto di un progetto, di un disegno di una visione. Progettare l’incontro. Pensarlo e prevedere le regole d’ingaggio.
La città è spesso la stratificazione di innumerevoli incontri. Tra parti – storicamente differenti – tra modalità costruttive, tra ceti sociali, tra funzioni. L’arte di fare città sta nel gestire le connessioni. Gli incastri per evitare scollamenti, disconnessioni e recinti. Le periferie sono il luogo dove si concentrano queste anomalie e la città storica rappresenta l’atlante senza fine delle contraddizioni – costruttive, storiche, sociali e culturali. E’ in questi luoghi che dobbiamo concentrare le nostre energie. Risolvere le disconnessioni. Governarle, gestirle attraverso il progetto, il piano per non farle diventare il luogo dell’infiltrazione (della cultura mafiosa).
 
Si può agire d’istinto, arrancando tra le macerie, coprendo ogni cosa, ogni connessione, con una patina d’oro – ma sarà inutile. Prima o poi una pioggia o un terremoto evidenzieranno tutto. Allora serve governare la connessione tra le parti. Che sia architettura o politica, che sia solidarietà o economia, tra un uomo e una donna poco importa. Il rapporto tra le parti si risolve nel confronto e nell’ “invenzione” poetica  dell’incontro.
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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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