Dei Sepolcri, l’atlante immaginifico dell’aldilà: un libro di pietra che racconta una storia

Abbiamo da poco, commemorato i nostri defunti. Abbiamo ricordato, se mai ce ne fosse stato bisogno, la perdita dei nostri cari. Quelli a cui siamo stati legati da sentimenti forti, dalla condivisione intima, dall’appartenenza familiare. Uomini e donne che hanno rappresentato, ancora oggi e vividamente, un’idea, un modello, un conforto, un compagno, la stessa vita.

Madri, figli, amici. Padri, fratelli, compagni, sposi. Amici, colleghi, vicini di casa.

“All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne – confortate di pianto è forse il sonno – della morte men duro?” (Dei Sepolcri, Ugo Foscolo)

La morte rappresentata nei secoli dall’arte giunge fino a noi sotto forma allegorica, monito per gli uomini. Destino ineluttabile. Da Giotto a Arnold Böcklin, da Omero a Mozart. Da Saffo a Ugo Foscolo. Da Michelangelo a Carlo Scarpa. La morte diventa una liturgia. Simbolo di passaggio, da una dimensione all’altra, che è parte della vita stessa.

Sin dalla notte dei tempi, da quando l’uomo ha preso consapevolezza della sua duplice natura: finita e infinita. Da quando ha compreso il senso della memoria e la sua forza rigeneratrice, ha costruito – in terra – monumenti. Luoghi per commemorare e ricordare, per connettere la propria esistenza a quella degli Avi. Ha segnato i luoghi, attraverso pietre scavate, cumuli di roccia viva. Ha eretto piramidi, tholos, mausolei. Ha collocato lapidi, sarcofagi. Lo ha fatto lungo le vie, dentro le chiese, fuori dalle città, nei boschi e persino nel mare.

Ha costruito un paesaggio – il cimitero – “che per noi, nella nostra esperienza attuale, è l’esempio evidente dell’eterotopia (il cimitero è assolutamente l’altro luogo) … Curiosamente, però, nel momento stesso in cui la nostra civiltà è diventata atea, almeno più atea, cioè alla fine del XVIII secolo, si è cominciato a individualizzare gli scheletri. (Michel Foucault, Utopie Eterotopie, Edizioni Cronopio, Napoli 2014). A partire dall’editto di Saint Cloud di Napoleone del 1804.

L’arte in genere e in particolare l’architettura, la scultura, la pittura e la musica, hanno celebrato questo momento, quello del trapasso. Il sepolcro diventa narrazione. Un libro di pietra che racconta una storia. Una specie di storytelling che oscilla tra la poesia e la teologia. “… ad evocar gli eroi chiamin le Muse – del mortale pensiero animatrici. – Siedon custodi de’ sepolcri, e quando – il tempo con sue fredde ale vi spazza – fin le rovine, le Pimplèe fan lieti – di lor canto i deserti, e l’armonia – vince di mille secoli il silenzio?”

Il cimitero, quindi, come teatro. Luogo della rappresentazione della memoria. Spazio in cui si sovrappongono segni, significati, storie e miti. Camminamenti lungo le vie della città dei morti. Un atlante di monumenti, di ricordi, elevati verso il cielo come i cipressi. Custodi silenziosi che segnano un limite, enfatizzano uno scorcio, orientano il visitatore e ci connettono al divino. Radici profonde, verso il centro della terra e rami svettanti verso Dio. Sono la porzione vivente di questo paesaggio onirico. Il cimitero è fatto di pietre e di alberi, di artificio e di natura. Segue un disegno ippodameo, fatto di cardi e decumani. Al cui interno si collocano cappelle gentilizie – la cui pelle di pietra è come una stoffa di pizzo. Un paesaggio in cui le statue di angeli, santi, madonne e di uomini illustri, si parlano e si guardano. E il vento tesse le fila di queste storie antiche. E la luce del sole, esalta le vibrazioni plastiche di statue, capitelli e merletti di pietra.

Si entra dentro il cimitero. Si cammina dentro lo stesso. E l’orizzonte si fa cornice di questo scenario “romantico”, verso i monti, verso le valli, verso la città dei vivi. Si ritrova il silenzio, come strumento di contemplazione. E vivono gli sguardi, i gesti, il passo. Le mani sfiorano le fredde pietre. Sistemano i fiori e segnano nell’aria una croce. Sotto terra si colloca la morte e sopra la vita. Dentro, nell’oscurità della tomba, dove la luce non può più penetrare, riposa la salma di un essere vivente che un dì fu parola e pensiero, fu movimento e sentimento.

Il cimitero ci ricorda la poesia di Totò, “a livella”. Perché tutti sono orizzonte e Le Corbusier, collegava la linea verticale alla vita e quella orizzontale alla morte.

Giardino, campo, città eterna, porta dell’Ade. In ogni luogo e in ogni tempo, abbiamo immaginato l’aldilà. Lo abbiamo immaginato come luogo, come spazio. Lo abbiamo segnato con la parola; con il nome di chi lo abita per sempre, come una casa.

E’ affascinante come Antonio Canova, ci proponga questo luogo immaginifico. Il Monumento funebre a Maria Cristina d’Austria è forse il canone più ridondante del mausoleo funebre. Come tutta la statuaria canoviana che diventa il “tipo” più ricorrente nei cimiteri d’Italia. Anche se “l’isola dei morti” di Arnold Böcklin – il cui titolo originale era “un luogo tranquillo” – è forse l’immagine più intensa e misteriosa, ispiratrice di sentimenti e di tensioni, che si possa proporre. Intriga l’idea che gli artisti egiziani hanno decorato le tombe con opere straordinarie, pensando che nessuno le avrebbe viste. Questa idea è potente. Una bellezza che non deve apparire.

Abbiamo quindi creato un atlante immaginifico dell’aldilà, nei secoli e nei diversi continenti. Abbiamo reso visibile questa idea attraverso il “monumento” funebre. Abbiamo collocato tutto ciò fuori dal nostro spazio quotidiano fino a collocarlo “fuori” (almeno dal XVIII sec. in poi). Adesso dobbiamo riscoprirne il valore. Non solo luogo di tristezza ma paesaggio culturale della memoria. Luogo in cui l’arte esprime – qualche volta – la sua massima espressione. Luogo in cui le opere sono artistiche e di pregio, luogo della bellezza sublime. Abbandonarlo all’uso esclusivo della commemorazione dei defunti è ridurne il suo significato. Bisogna “viverlo” con una mutata consapevolezza. Curarlo, studiarlo, renderlo più accessibile e fruibile. Perché esso è come un museo delle anime e degli uomini. Luogo in cui si può – a partire dalla conoscenza del passato – pensare al futuro.

Celeste è questa – corrispondenza d’amorosi sensi, – celeste dote è negli umani; e spesso – per lei si vive con l’amico estinto – e l’estinto con noi, …

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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