La “varetta” improvvisata: due bambini di Paternò e il miracolo della Santa.

Ogni città ha la sua festa. Ogni città ha i suoi fuochi d’artificio. Ogni città ha i suoi riti. La processione, le luminarie, i dolci, il pranzo di famiglia. La mostra d’arte, il recital di poesie, la messa di notte, le vacanze a scuola e l’approvazione del bilancio comunale. Sì, qualche volta anche il bilancio comunale diventa “parte” di una festa, anzi propedeutico alla festa. Ma questa in verità è un’altra storia ed oggi non voglio proprio raccontarla, non ne vale la pena.

In ogni città del sud, di questo Paese, c’è una festa del santo patrono, che porta con sé altro. Non è solo liturgia, non è solo devozione. C’è l’identità di un popolo, la sua natura culturale, il suo desiderio di riscatto. Ogni santo trova una sua collocazione “mitologica” nella storia di un luogo, rompendo ogni logica sequenza spazio temporale, come San Giacomo in Spagna e la Maddalena in Francia. I santi possono essere ovunque e in qualunque tempo. Sono esattamente dove vengono evocati a proteggere i fedeli dalla peste, dal colera, dalla lava. Chiese, strade e piazze diventano il teatro immaginifico del miracolo, che si attribuisce alla santa, in questo caso, a Santa Barbara.

Sono feste barocche (in origine, forse più antiche), feste in cui il popolo si ritrova per cercare un conforto alle tribolazioni di un anno. Ma non voglio soffermarmi sulla festa conosciuta. Alla magia dei fuochi e delle luminarie; alla processione sacra, ripresa dalle televisioni, immortalata dalla dirette Facebook; dall’infinità di smartphone che registrano ogni passo della santa in ogni parte della città. Non voglio soffermarmi sugli abiti della festa, sulla sua dimensione appariscente e mediatica.

Desidero fissare lo sguardo nel gesto di due bambini, incontrati per strada, di sera. Una scena surreale, illuminata dalle vetrine dei negozi, lungo una strada cittadina invasa da macchine sfreccianti e indifferenti. In un tempo in cui ogni ragazzo e ragazza trova più comodo giocare ai videogiochi, nella propria camera, al caldo. In un tempo in cui i giochi sono quelli del calcio o degli assassini, con CR7 e Assassin’s Creed. In un tempo in cui non si trovano più bambini per strada, nemmeno a cercarli nei vicoli dei centri storici. In questo tempo disumanizzato e invecchiato, improvvisamente due bambini giocano con due bastoni a fare i varettari.

Due bastoni di scopa, due bambini, un maschietto e una femminuccia. Una strada piena di macchine invadenti. Le luci dei negozi, il freddo che taglia l’aria. A correre lungo un marciapiede, con il rischio di scivolare giù. I volti pieni di pathos come attori di una tragedia greca. I corpi danzanti, agili e leggeri, come il Satiro danzante. Saltellando in sincronia, sprezzanti di ogni pericolo. Protagonisti di una processione immaginifica, lontano dal tempo ma vera nei loro occhi. Gli sguardi di questi piccoli uomini erano pungenti, vivi, sinceri. Una devozione che andava oltre il gioco.

Erano varettari improvvisati, di quelli che non chiedono soldi, che non vanno ai consigli comunali, che non urlano, che non fanno giri ambigui e seguono la via maestra. Felici di un istante da protagonisti, con la musica nel cuore.

La loro varetta non era un oggetto da trasportare – prezioso, pesante e antico – ma semplicemente due bastoni tenuti dalle loro mani, uno avanti e l’altra dietro. I loro corpi, legati attraverso i bastoni, diventavano un unico elemento scenico, che si muoveva in sincronia, correndo e saltellando per la via. E percorrendo, con alcuni amici, la stessa via – in macchina – improvvisamente, ci è apparsa questa macchina di corpi umani come una visione onirica. Giusto il tempo di coglierne i contorni, i gesti, la teatralità e la dimensione mimica e già eravamo distanti. Un attimo di pausa e la felice consapevolezza che c’è ancora in chi gioca per strada. Che gioca a fare il varettaro.

Per un attimo FIFA 2018 e Assassin’s Creed erano stati messi da parte. Un fazzoletto di strada era il nuovo territorio di conquista di due giovani eroi, due cuccioli d’uomo che sfidavano le macchine, il freddo e l’indifferenza. Un fiore nel deserto, una speranza di umanità. Non importa se i bastoni fossero rovinati, se i vestiti sgualciti o i movimenti poco ortodossi. Era una danza, elegante e ritmica allo stesso tempo. Una colonna sonora silenziosa che tamburellava nelle menti dei giovani varettari.

Quando le loro figure furono cosi piccole da non potersi più vedere, il ricordo di questa scena si è consolidata e strutturata. In un tempo, in cui ormai sembra tramontata la possibilità di vivere le città – invasi dalla velocità e dalla fretta – con tempi più lenti, lungo vie alberate, passeggiando e chiacchierando, questa visione sembra quasi un miracolo, forse un messaggio per tutti noi. Dove sono i nostri ragazzi? Dove giocano? Forse abbiamo perso la voglia di inventare e sperimentare. Un calcio a un pallone, nella piazza, nel cortile. Inventare un luogo, una scena. Fare teatro in strada per immaginare un castello, un fiume, un bosco. Un’avventura urbana. Una processione sacra.

Persino i poeti reclamano una festa più intima e sincera. Lontana dalle polemiche di palazzo e dalle strumentalizzazioni di parte. Persino gli artisti, cercano tra le antiche pietre l’origine di ogni rito, di ogni liturgia.

La varetta improvvisata è un messaggio per tutti noi. Un miracolo della Santa. Un segno che c’è ancora uno spiraglio. Barbara è tornata ancora una volta, senza fiori e senza festa. Ma questa volta parla di coraggio, di passione di rinascenza. Una Gerusalemme nuova. Un popolo che riemerge, una discendenza di giovani guerrieri.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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