Futuro, l’attitudine a immaginare un mondo nuovo

E’ attitudine naturale dell’uomo, l’immaginazione. L’uomo, fin dall’antichità, ha costruito, una trama leggera di segni e racconti allo scopo di rappresentare o evocare parte del suo spazio finito e infinito. Una porzione, forse minima, di cosmologia universale, dentro la quale – sempre l’uomo – muove i suoi passi e vive le sue esperienze.
Dentro questo paesaggio culturale – costruito nei secoli – ha sempre cercato di guardare verso il futuro. Attraverso il ricordo del passato e l’esperienza di un presente fugace, ha immaginato – costantemente – quello che verrà.
Sacerdoti, pizie, sciamani hanno decodificato, a partire dal mondo reale – ricco di quella trama semantica che si era stratificata nel tempo – il codice segreto del futuro. Numeri, sequenze, proporzioni, inclinazioni, allineamenti, coincidenze e tanto altro.
Ancora oggi, gli sforzi dell’uomo sono quelli di prevedere il futuro, immaginare uno scenario prima che questo si avveri. Appunto: immaginare, cioè rappresentare attraverso segni, parte del suo spazio finito e infinito, che ancora non c’è.

In questo senso, le arti (tutte) hanno contribuito a rendere questo gesto “umano” visibile a tutti. L’Arte è quindi l’esperienza umana che ci ricongiunge alla nostra natura divina, illumina parte dell’universo visibile e invisibile e punta lo sguardo verso uno spazio e un tempo diverso dal presente. In qualche caso verso il futuro.

Non ci soffermiamo sul quando o su chi ha reso questo gesto umano, sublime nel tempo. Vogliamo solo evidenziare che lo sguardo verso il futuro è un’attitudine innata dell’uomo. Chi non vuole conoscere il futuro proprio o degli altri?

Forse tutto questo fa paura e oscilliamo tra il desiderio di sapere e di non sapere. Oppure siamo spaventati dall’idea che tutto ciò che ci circonda – certezze, liturgie, posizioni – possa cambiare e diventare altro. In effetti se guardiamo indietro nel tempo, possiamo verificare che tutto cambia, si trasforma e che l’eternità delle cose e delle persone è un concetto difficilmente comprensibile e definibile. Per descriverlo, infatti, ci siamo organizzati diversamente (le religioni, la scienza, ecc.).
Spesso pensiamo che nulla possa cambiare, che tutto deve restare immutato nel tempo. Il nostro corpo, le nostre abitudini, gli amici, i luoghi che abitiamo ecc. E spesso crediamo che ci siano cose – intorno a noi – che vivono questa immutabilità; la natura per esempio. Le montagne, i fiumi, il mare, le colline; invece anche loro sono mutevoli – anche se, con una certa lentezza – modificano la forma e la sostanza.

Un esercizio utile è quello della fantascienza, sia essa cinematografica che letteraria. Oggi più che mai siamo chiamati a “saper vedere” oltre. A cosa succederà nelle nostre città, nei luoghi che viviamo. Se per esempio saremo sempre più immersi nella realtà aumentata e sempre meno in quella reale. Se il paesaggio che circonda le nostre vite sarà quello di oggi o strutturato da un’intelligenza artificiale. Forse saremo tutti forniti di visori 3D che ci restituiscono uno scenario scelto dal menù. Come essere immersi in un enorme blue screen o green screen terrestre dentro un’immensa calotta di vetro, che gestisce – per noi – le condizioni atmosferiche migliori. (Valerian, la città dei mille pianeti, film 2017)

A Parigi nell’ottocento chi poteva pensare che dall’esigenza di realizzare le fognature stradali, lungo le vie cittadine – poi coperte dai marciapiedi – si potesse arrivare alla creazione di un nuovo spazio per la socializzazione – appunto i marciapiedi – e quindi all’esigenza di trasformare i piani terra in negozi, dalle luccicanti vetrine con le tante caffetterie piene di gente, che rivoluzionano il senso della città? (Richard Sennett, Costruire e abitare. Etica per la città, Feltrinelli) Chi poteva prevederlo? Ovviamente questo è solo un esempio per capire come anche da semplici innovazioni o trasformazioni può cambiare radicalmente la nostra vita o la nostra società.

Cosa sarà la città tra cinquant’anni? Esisteranno le strade, gli edifici pubblici, i parchi? Mangeremo a casa o solo nei ristoranti? Ci saranno ancora i cinema? Andremo a comprare nei negozi, passeggiando o ci sarà Amazon 4.0?
Possiamo continuare a farci queste e altre domande. Possiamo spaventarci oppure rimanere affascinati. Possiamo persino tentare di indirizzare o curvare questo possibile futuro. Possiamo opporci con tutte le nostre forze, oppure solo aspettare. Possiamo pensare che noi non ci saremo, e non sono affari nostri. Dalla rivoluzione di Internet a oggi molte cose sono cambiate e tante cambieranno. Sempre più smaterializzati, delocalizzati. Verso un’onnipresenza e onniscienza artificiale.

In questo futuro possibile, le relazioni umane, un quadro, un castello, un corso d’acqua, una foglia, un gatto, il profumo di una rosa, saranno le ricchezze più importanti. La qualità del paesaggio, cioè quello spazio culturale e fisico, dentro il quale vive l’uomo, farà la differenza tra i luoghi della terra. Preservare la lenta mutevolezza di questo spazio significa vivere con pienezza il futuro. L’umanità, con tutte le sue contraddizioni, è il bene più prezioso che dobbiamo preservare e dentro di essa ci sta l’ambiente che ci circonda con i suoi veri tramonti, le sue vedute verso il mare e la sua storia. Non dobbiamo avere paura del futuro, dei cambiamenti, delle trasformazioni. Solo dobbiamo essere attenti a saper conservare, preservare, tutelare, non solo le pietre ma anche i sentimenti e le idee.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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