Verità nascoste: “Questo (quasi) finanziamento è mio. Quello (sicuramente) perso è tuo

Ogni volta che si raggiunge un risultato politico, per esempio l’ottenimento di un finanziamento o l’entrata in vigore di una legge, assistiamo ad un teatro tragicomico tra gli attori – passati e presenti – dell’intero procedimento. A dire il vero questa cosa si verifica anche in tanti altri campi dell’agire umano, e abbiamo detto tutto.
Ovviamente il problema nasce quando dall’ideazione alla conclusione dell’azione passa tanto di quel tempo che i protagonisti sono ormai usciti fuori di scena.

Certamente quando si immaginava di costruire una cattedrale gotica, si metteva in conto che il primo costruttore non avrebbe mai visto la sua opera conclusa, ma consapevole che l’ultimo dei costruttori – quello che la concludeva – lo avrebbe ricordato certamente. Anche gli astronauti, che lavorano da anni al viaggio su Marte, vivono la stessa esperienza: non toccheranno mai il suolo di Marte e forse nemmeno lo vedranno in TV. Ma anche in questo caso sono consapevoli del riconoscimento che gli verrà attribuito, per il lavoro svolto.

Abbiamo detto più volte, in altre occasioni, che la cultura del contadino, è determinante per comprendere il significato profondo di pianificazione e progettazione – nella trasformazione dell’ambiente che ci circonda – e i valori della pazienza e riconoscenza, nella gestione dei processi trasformativi. Il contadino pianifica a lungo termine. Progetta azioni coerenti al suo piano; ha la pazienza di aspettare e perseverare (anche nelle avversità), persino tramandare alle generazioni future i suoi piani e le sue conoscenze; e riconosce i meriti: alla natura, a Dio, alla famiglia e ai suoi uomini. La politica dovrebbe incarnare questi principi ed esercitarli costantemente in ogni azione che abbia come obiettivo la felicità della città.

Ma, e dico ma, non avviene sempre così. Sempre più la politica, e non solo, è interessata alla filosofia del “mordi e fuggi” che permette di racchiudere in un tempo finito tutte le azioni – dall’ideazione alla raccolta dei frutti – per poterne godere degli effetti sociali, elettorali ed economici. Il permanere di questa condizione sta modificando il DNA degli uomini (politici in particolare) generando una serie di patologie diffuse: perdita di memoria, cannibalismo culturale e allucinazioni varie, che hanno come effetto, la proiezione nella società di realtà ad assetto variabile e modificabile. Insomma delle vere e proprie bufale da social.

Per lo stesso motivo si verificano altri fenomeni collaterali. Per esempio l’esigenza di attribuirsi e farsi portavoce di altre idee – magari incongruenti con le proprie ideologie e non necessariamente utili alla collettività – al solo scopo di raccogliere consensi occasionali e parziali che si sommano algebricamente ai precedenti accumulati; che ci risparmiano, tra l’altro, la fatica di pensare, pianificare e progettare nuove soluzioni. Quindi la pigrizia e la mancanza di idee proprie, impone la pratica della condivisione alla cieca. Ma ci sono altri fenomeni simili. Per esempio quelli che non avendo mai pianificato e progettato nulla di concreto si fanno trovare sotto il balcone per intestarsi gli sforzi altrui. Sono quelli che sfruttano i risultati ottenuti dagli altri, semplicemente portando le bandiere in giro per la città. Come se la vittoria in coppa del mondo, fosse il risultato di chi corre in macchina di notte, felice per il successo della propria squadra, e non il risultato di undici giocatori che sono scesi in campo, faticando.
Poi assistiamo al paradosso. Cioè, quando si ottiene un successo il merito è nostro, del nostro impegno e del nostro tempo; mentre quando registriamo un insuccesso, la causa è certamente da ricercare nel passato lontano, nell’incompetenza degli altri e noi possiamo solo prenderne atto, senza poter invertire il destino. E’ bello vincere facile.

Quindi in sintesi: la perdita di memoria, significa dimenticarsi, che quello che raccogliamo oggi è il frutto del lavoro di altri – nel bene e nel male; che il cannibalismo culturale è quella pratica diffusa, di divorare le altrui idee, trasformandole ogni volta nelle proprie e dimenticando chi le ha pensate e generate; e le allucinazioni varie, sono quel gioco delle parti – tra gli attori della scena politica e culturale di una comunità – che determina storie storpiate e modellate, sempre in funzione della raccolta di un risultato immediato, che non presuppone impegni e progetti.
Non sono sicuro, tra la pigrizia e la mancanza di idee, quale sia la causa principale o se forse entrambe determinano quanto detto sopra. Certamente, una comunità deve diffidare di quella politica e di quella classe intellettuale che invece di pensare al futuro, attraverso la costruzione di convergenze a lungo termine e del duro lavoro della pianificazione, si preoccupano d’intestarsi tutto quello che si trova a passare per caso, senza nemmeno un briciolo di riconoscenza a chi ha avuto il merito di pensare, pianificare e progettare, prima di loro. Poi c’è persino chi – senza saperlo – si intesta gli insuccessi o le contraddizioni dei predecessori, facendosi strumentalizzare. Questa è arte.

Se pensiamo alle nostre città, ci rendiamo conto che anche sul piano fisico, delle spazio urbano, del paesaggio e dell’architettura, siamo smaniosi di avere tutto e subito e quindi impegnati a consumare suolo, idee; combattendo il tempo e le sue lente trasformazioni, preferendo la cristallizzazione, la mancanza di sfumature, l’immutabilità e l’uniformità. Perché tutto questo ci tranquillizza e ci rassicura, mentre la difformità, il cambiamento e l’imprevisto ci fa paura.
Si dovrebbe ritrovare il senso etico del tempo, della memoria e della continuità storica, riconoscendo il processo evolutivo e non il miracolo imprevisto. E ora, tutti a farsi la foto.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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