Licenziamenti, la rigenerazione aziendale è come un virus che colpisce tutti: le soluzioni possibili

E’ di questi giorni la notizia di altri licenziamenti nel comparto commerciale: Papino, Mercatone Uno, Abate, Mondo Convenienza, ecc. Sembra una tempesta senza fine. All’improvviso, arriva la notizia che lascia tutti senza parole. Famiglie travolte e scaraventate in una nuova condizione sociale: il baratro della povertà. L’isolamento, la paura, la mancanza di speranza. Il mutuo, i figli e la propria dignità. Una condizione insostenibile.
Poi la rabbia, il desiderio di capire, il tempo della riflessione e del confronto. Le telefonate agli amici, il desiderio di parlare per spiegare che la disoccupazione non è una malattia. Una nuova tensione verso nuove soluzioni e un altro giro di telefonate per cercare “un lavoro”.

Qualcuno nel frattempo insinua che la causa di tutto sono gli immigrati. Allora ci si aggrappa al coro: “prima gli italiani”. Ma è come una droga. Ci stordisce e annebbia la nostra ragione, storpiando la verità.

Come un’epidemia il problema si espande da città in città, da distretto in distretto. Un virus che intacca la serenità di tutti. Come un domino interessa tutti, perché a cascata le ripercussioni commerciali incidono nell’intera filiera produttiva ed economica. Insomma, paga tutta la collettività; per questo il tema riguarda tutti.

Il nostro interesse non è solo quello della solidarietà verso il nostro vicino di casa ma anche verso la ricerca di una soluzione che riequilibri il sistema economico complessivo.

Rimangono, comunque, alcuni dubbi da chiarire. Come mai – quasi contemporaneamente – alcune delle più grandi aziende commerciali del territorio devono licenziare? Quali sono le cause? Esiste una possibile relazione tra le aziende?

Il sospetto è che forme sofisticate di ingegneria finanziaria con una regia comune, organizzano questo fenomeno di rigenerazione aziendale. In pratica muore un’azienda e ne rinasce un’altra che sostituisce la precedente. I dipendenti diventano solo uno dei tanti effetti collaterali accettabili. Come in un’azione di guerra. Si assiste a una riformulazione del personale che viene assorbito, qualche volta spostato in altre funzioni, oppure definitivamente messo fuori dal sistema produttivo. Per questo si attivano dispositivi normativi a supporto del lavoratore (cassa integrazione e altri ammortizzatori sociali) che pesano sulle casse dello Stato.
Il commercio on line (Amazon e gli altri), le difficoltà legate all’accessibilità dei centri minori, una spropositata concentrazione di centri commerciali nello stesso distretto, la mancanza di innovazione nella gestione aziendale e la perdita dell’identità produttiva, stanno certamente contribuendo a desertificare il tessuto commerciale etneo.
A questo si aggiunge una mancanza di politiche urbane che pianifichino interventi e trasformazioni, utili a rigenerare i settori produttivi primari: agricoltura, artigianato, industria e commercio. La responsabilità delle comunità politiche locali è enorme e affonda le radici nel tempo. Oggi paghiamo la poca lungimiranza delle scelte politiche del passato e l’inconsistenza di quelle del presente. Il vittimismo e il fatalismo sono le uniche reazioni registrate. Crediamo che le criticità dipendano dagli altri e che solo con l’intervento soprannaturale si possa dare le giuste risposte. Credo che bisogna cambiare il paradigma. Solo analizzando e studiando le criticità si può immaginare una serie di azioni utili per sviluppare nuove economie. Ma serve guardare in faccia la realtà, affrontare i problemi con determinazione. Se un medico non individua la causa della malattia e la conseguente terapia, il paziente non guarirà mai. E da queste parti non si vede nemmeno il medico, al massimo qualche “ex mago” di paese che pontifica dopo avere consultato il web.

Ma ritorniamo alle coincidenze. Le grandi aziende licenziano. Prima hanno investito milioni di euro in centri commerciali faraonici e poi sprofondano nel fallimento finanziario. Mah! Nessuno si era accorto del commercio on line? Nessuno si era accorto che diminuiva la popolazione (consumatori) e i punti vendita erano troppi? Le banche hanno sostento grossi investimenti senza garanzie? E tutto avviene contemporaneamente? Sembra quasi – a pensar male – che ci sia un cambio al vertice dell’organigramma di gestione di questi grandi poli commerciali. Infatti si assiste a un ricambio di gestione che impone ulteriori investimenti, strani investimenti.

Se invece si lavorasse per sostenere il piccolo commercio urbano? Per incentivare la distribuzione dei prodotti locali, valorizzando la produzione familiare? Se si lavorasse per promuovere i centri commerciali naturali (magari con qualche modifica normativa)? Se si lavorasse per creare zone franche nei centri storici? Se si cominciasse a parlare di consorzi e distretti per ottimizzare i costi di pubblicità creando una piattaforma e-commerce condivisa per occupare altri mercati internazionali?

Rimangono alcuni dubbi e tante perplessità sul futuro dei lavoratori licenziati. Solo colpa della crisi? Un fatto inevitabile? Oppure una gestione superficiale o, peggio ancora, furba? Rimane la consapevolezza che la politica locale può e deve dare delle risposte, non solo di solidarietà ma anche in termini di programmazione strutturale. Più che aspettare il segno dei Santi e la Provvidenza, è necessario agire con competenza e determinazione, guardando al futuro con ottimismo. Questa comunità ha le risorse e le opportunità per uscire fuori dal tunnel.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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