La meglio gioventù e l’odore nauseante della superficialità: salvare i giovani prima che vadano via

Dentro una generazione per scoprire un mondo, forse sommerso. Un popolo di adolescenti che come un fiume scorre tra le vie, si ferma nelle piazze, impregna i luoghi di musica a palla, di odori di panini fatti per strada, del suono delle bottiglie rotte sull’asfalto e di sgommate con i motorini. Dentro questo fiume ne scorre un altro, fatto di morbidezza, di rispetto per le cose e per le regole. Sono due fiumi che scorrono nelle viscere della città e qualche volta si attraversano, si sfiorano, si toccano e non sempre questo è una bella cosa.

E’ stato facile raccogliere – tra i banchi di scuola, dentro alcune comunità – il grido di allarme di una generazione di adolescenti, ormai stanca di sopportare – ogni sera – l’odore nauseante della superficialità, dell’arroganza, della cattiveria di quelle “squadre” di ragazzi terribili che conquistano sempre di più la città.
E’ stato facile scoprire i luoghi, i riti, le dinamiche di questo “malaffare” che imbratta i nostri ragazzi, le nostre figlie; di una vernice nera, indelebile. Una vernice che sporca i loro sogni, le loro idee, il loro futuro.

Nessuno ne parla ufficialmente, come fosse un segreto. Qualcuno tenta di sollevare la questione, ma viene coperto dall’indifferenza della stessa comunità. La questione centrale è la definizione di politiche giovanili per coltivare il futuro di una generazione che rischia di scappare – appena può – dalla sua terra.

Nessuno racconta delle tante rapine nelle scuole, per rubare una sedia, un pc o distruggere una macchinetta del caffè, come se fosse una sfida, un gioco, una dimostrazione di coraggio e lo sfregio all’istituzione scuola. Nessuno racconta delle folli notti in alcune parti della città, dove si praticano riti ai limiti della decenza e della sicurezza (forse anche oltre). Nessuno ne parla. Ogni tanto una voce, un disperato appello, ma poi tutto nel silenzio delle nostre case.

I ragazzi di oggi – per noia, per sfida, per superficialità, per malizia – occupano gli spazi urbani per “distruggere” e non per vivere. Il Parcheggio, piazza Santa Barbara, al Kyano, piazza Nassirya, al Ponte, al Cimitero e piazza Schettino, sono alcuni dei tanti luoghi, in una città come Paternò, ormai sotto assedio da tempo. Spaccio, urla, zuffe, sfide, corse di auto e di moto, scommesse; di notte, nell’oscurità, nello stesso momento in cui “altri giovani” attraversano lo stesso fiume sperando di farcela senza esserne coinvolti.

Un parroco, un avvocato, un commerciante, una mamma. Ogni tanto sentiamo le loro denunce, le loro accuse, ma c’è sempre un silenzio pesante che opprime le loro voci. “che ci possiamo fare?” è la risposta di tutti. La risposta più facile da parte delle istituzioni. Troppo facile così. Poi ci indigniamo tutti per un video apparso sui social che ci restituisce una cruda verità. Ci scandalizziamo per un video che racconta una storia, avvenuta sotto casa nostra, del vicino della porta accanto, fatta nella piazza che guardiamo dal nostro balcone. “Tutti sapevano, tutti sanno, tutti comprendono le implicazioni di questa situazione, la città è sotto attacco” è forse la frase più ridondante, che ferisce di più, perché ci restituisce lo spessore della vicenda, la sua implicazione nel tempo. Non stiamo parlando di una faccenda di oggi, ma di un costume che caratterizza questa città ormai da anni, nell’indifferenza di tanti, troppi.

I ragazzi sono vivi, sono ancora vivi. Se aiutati e sostenuti possono persino parlare, denunciare e urlare contro questo fiume nero e viscido che scorre tra gli alberi verdi della meglio gioventù. I ragazzi sono un risorsa inaspettata, ma vanno aiutati a ritrovare la voglia di restare per costruire il futuro.

Politiche giovanili, è questa la strada. Definire una strategia per le politiche giovanili. Ma bisogna prima ammettere che c’è un problema, un’emergenza, una criticità. Bisogna ripartire dai luoghi, dallo spazio urbano e rigenerare – sul piano sociale e culturale – la città. Bisogna ripartire dal sostegno alle comunità giovanili, alle parrocchie, alle associazioni che fanno sport, che lavorano con i giovani (scout ecc.). Bisogna riconnettere la città alle scuole, alle istituzioni. Realizzare azioni di resilienza, svuotandole di quella demagogia teatrale che ridice tutto a un “selfie” da pubblicare sui social e poi il silenzio. Azioni di politiche giovanili per restituire la città ai ragazzi, alle famiglie, a tutta la comunità per poterla vivere in sicurezza.

“Agire, muovendosi per svelare la Bellezza”. La bellezza dei volti, di quei ragazzi a cui brillano gli occhi. Le scuole chiamano tutto questo: competenze di cittadinanza, abilità civiche, capacità di essere comunità. Forse dobbiamo riscoprire i giochi di strada, le feste di piazza, la partitella a pallone nello spazio vicino la chiesa, la passeggiata la domenica, il cinema all’aperto, il teatro nei vicoli e la banda musicale che suona per le strade. Forse dobbiamo recuperare alcuni relitti urbani per concederli alle comunità giovanili, forse dobbiamo uscire dai recinti associativi e portare la poesia, la musica, il cinema, l’arte nelle strade, nelle periferie, negli stessi luoghi oscuri che oggi sembrano persi. Pianificare e programmare un progetto per la meglio gioventù che è pronta a fare le valige per lasciare questa terra. Prima che sia troppo tardi, basta guardare le statistiche. Se non si interviene, la città potrebbe morire per mancanza di futuro, e non sarebbe la prima volta. Scuola, parrocchie, associazioni, cittadini, politica: è urgente.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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