A Paternò si è spento il sole: dal 1986 la città è dormiente

A cercare una sola spiegazione è complicato. Si possono considerare tante cause e concause. Si possono formulare ipotesi, tutte valide. La congiuntura economica, una trasformazione antropologica, un virus, le innovazioni tecnologiche, ecc. Insomma, l’unico dato certo è che dalla fine degli anni ’80, a Paternò succede qualcosa che cambia il corso della sua storia. Il dato esce fuori dopo una ricerca – effettuata negli archivi della biblioteca comunale – che evidenzia come la stampa locale racconta – fino alla fino al 1986 – una città vivace, impegnata in molte attività culturali, con artisti che denunciano le questioni più forti di quei tempi anche a carattere internazionale.
Proprio qualche giorno fa, il maestro Barbaro Messina, ricordava alcune di queste manifestazioni in città ad opera di artisti intellettuali, che prendevano posizioni politiche attraverso la loro arte.
La galleria di arte moderna era in continuo fermento; il Carnevale era tra gli appuntamenti più attesi dell’anno; il festival di Roccanormanna un grande evento nazionale. Gli artigiani erano impegnati in progetti di riqualificazione urbana; la politica discuteva, dibatteva, sulle questioni della città. Poesia, letteratura, musica. Un fermento culturale che produceva benessere. Molti gli storici del tempo, impegnati nella ricerca storica dell’antica Ibla Major e del suo vero nome. C’erano persino eventi di arte urbana di altissimo valore artistico che rendevano la città un laboratorio permanente.

Tutto questo non è un ricordo personale e diretto, è quello che esce fuori dalla lettura dei giornali del tempo. perché dopo il 1986, tutto improvvisamente si spegne. Non c’è una spiegazione ovvia. La città si avvia verso gli anni ’90 con un clima diverso, più cupo e pesante. Lo fa tra scandali politici – che travolgono tutto e tutti senza distinzioni – all’interno di un cambio generazionale, che modifica gli assetti complessivi del potere. Non è ancora scoppiato il fenomeno di ‘Mani pulite’ in Italia, dei primi anni ’90, ma si respira già un clima diverso.

La letteratura giornalistica locale, improvvisamente, registra conflitti sterili, sui temi più futili. Scontri sulle poltrone, sugli equilibri politici, sulle lobby di potere. Conflitti aspri, non più tra ideologie ma tra personaggi. La città esplode sul piano urbanistico, si espande vertiginosamente. Il Piano regolatore generale, da poco operativo, si apre a nuovi scenari urbani che puntano alla iper-produttività volumetrica e proietta la città verso nord (la città giardino) e marginalizza la città verso est (scala vecchia).

Si spengono improvvisamente, le questioni culturali, il fermento artistico degli artigiani e appaiono le prime forme di vandalismo sulle opere urbane (comincia proprio qui l’indifferenza al vandalismo, cit. Barbaro Messina).

Cosa sia successo non è facile capirlo, o forse c’è una spiegazione ma avrebbe bisogno di un approfondimento antropologico. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. La città è dormiente. Poco a poco, si sono spente tutte le luci, prima quelle degli eventi culturali, poi quelle degli intellettuali, poi le aziende, i cantieri, i negozi e ora anche le luci dell’acropoli. Si sono spente lentamente le luci di tutto.

Non credo che sia utile far finta di nulla. Non credo che nascondere alla nostra vista questa anomalia sia utile. Non credo che – nascondendo tutto – riemergiamo da questo torpore. Se non prendiamo atto della malattia non guariremo mai. E non si tratta di una questione di pochi anni fa. Stiamo parlando di un processo involutivo che perdura da circa trent’anni. Nascosto ogni volta, ogni anno, per non prendersi la responsabilità di affrontarlo. A poco servono gli “eventucci”, le sagre, le apparizioni in tv. Serve guardarsi dentro, comprendere le vere ragioni. Serve capire.

Abbiamo perso la voglia di scoprire, sperimentare, di competere. Sul piano economico, culturale, imprenditoriale. Tutto demandato al calcio, a Luca Parmitano e alla festa del paese. Bisogna guardare in faccia la realtà. Senza indugio.

Poi c’è l’atavica abitudine di seppellire ogni cosa, ogni idea, ogni slancio. “non si può fare” è, e rimane, sempre il motto di ogni incontro. Penso all’ardito impegno dei mastri dei carri allegorici che inventavano figure svettanti e articolate sfidando la gravità. Penso agli ombrelli collocati nella via principale a colorare il cielo (ora questa immagine è l’icona delle città d’arte nel mondo). Penso che anche prima degli anni ’90 si ci lamentava, si criticava, ma mai come ora.
L’acropoli spenta è la metafora di una città che si è persa. Che non crede più in se stessa, che è logorata dai giochi di potere per le poltrone, che non ha slancio. Una città piena di giovani nati vecchi, e di vecchi che vorrebbero tornare giovani. Uno schiaffo, quello che vi propongo oggi, è uno schiaffo.

Serve volare, osare, sfidare, tentare, pretendere. Ma serve educarsi alla bellezza, alla felicità, all’ardore. Serve cavalcare la modernità, serve pianificare il futuro, non improvvisare il presente. Serve una convergenza di idee, di uomini e donne pronte a scalare la vetta, a sfidare il cielo, a faticare. Serve tempo, serve coltivare cittadinanza. Serve la politica. Serve trovare risorse per l’arte, per la cultura, per l’innovazione per uscire da questo tunnel. Oggi in una piazza di questa città, qualcuno prova a volare. Nella piazza che fu l’antico quartiere di Santa Barbara. Forse è un segnale. Dopo il 1986 la città è dormiente. Perché?

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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