La Città Metropolitana di Catania è un arcipelago di città mancate

La Città Metropolitana di Catania sembra un’incompiuta. Dopo la cancellazione delle tradizionali province, attraverso un percorso normativo complesso fatto di mille contraddizioni che dura ormai da anni, stiamo ancora aspettando di capire cosa fare concretamente. Un vuoto istituzionale e programmatico che sta generando innumerevoli criticità in diversi settori della pubblica amministrazione e dei servizi ad essi collegati: scuole, strade, solidarietà, mobilità, energia, rifiuti e soprattutto la mancanza di una pianificazione complessiva.
Ad oggi solo parziali risposte dalla politica; tentativi di porre rimedio con formule amministrative, più o meno creative. Tutto è ancora un cantiere, ‘in progress’, i cui risultati operativi, sono tutti da verificare.

Il sindaco di Catania, eletto dai catanesi, diventa per magia, il sindaco di tutti i comuni che fanno parte della città metropolitana. Una contraddizione nel rapporto tra rappresentante e rappresentato, che produce ovvie e comprensibili anomalie nel governo del territorio. A breve si costituirà un consiglio metropolitano, che non potrà certamente colmare il vuoto sul piano della rappresentanza democratica dei cittadini nelle istituzioni. Il referendum di marzo sul taglio ai parlamentari nazionali potrebbe fare il resto in questo senso, sempre nel nome del risparmio della spesa pubblica. Qualcuno sostiene che sarebbe bastato diminuire le indennità, invece di smantellare l’architettura dello stato. Vedremo. Rimane il fatto che il sindaco di Catania, già pressato dalle “sue” criticità comunali deve tentare di dare risposte ad una costellazione di enti e non sempre può farlo per ragioni oggettive: limitate risorse finanziarie, sovrapposizione di poteri e un generale stato di precarietà funzionale nella macchina amministrativa metropolitana.

Rimane anche aperto il tema del perimetro della Città Metropolitana, delle sue funzioni e delle risorse umane e finanziarie ad essa attribuite. In questo senso servirebbe un’approfondita riflessione politica e normativa che punti a risolvere le questioni di cui sopra, per evitare che gli altri sindaci – afferenti alla Città Metropolitana – diventino in futuro presidenti di quartieri declassati dal loro ruolo di rappresentanti diretti di una comunità. La partecipazione a tutte le processioni di tutti i santi patroni è già un segnale in questo senso.

Ma la storia di questo territorio ci potrebbe aiutare, e forse spiegare, alcune questioni che emergono: nella politica, nella chiesa, nell’economia e nella società. Forse buone indicazioni si possono trarre studiando la viabilità storica, i suoi diversi baricentri geografici nel tempo; le connessioni idrografiche, gli spostamenti della popolazione (Gerone e Dionisio di Siracusa tra il V e il IV sec. a.C. si preoccupano di spostare più di diecimila abitanti da Lentini a Catania e da Catania a Paternò); la storia delle fondazioni e delle guerre contro Cartagine ed Atene; la storia delle eruzioni e dei terremoti collegati all’Etna. Per farla breve: dalla lettura storica si possono comprendere le attuali dinamiche sociali e politiche e forse rideterminare limiti e ragioni aggregative tra le città. Ma il legame fisico e storico tra Paternò e Catania (antico almeno dal V sec. a.C.) spiega anche il rapporto tra nobiltà (che vive a Catania) e contadini (che lavorano la terra) mediato dai ‘massarioti’ (fenomeno che non riguarda altri ambiti territoriali come Acireale, per esempio), secondo la teoria dello storico Nino Tomasello che adduce a questo tipo di rapporto le ragioni di una certa anomalia socio-economica che sfocia nell’apatia imprenditoriale e culturale delle aree interne. Questo giustificherebbe persino quella singolare dipendenza, da parte della politica paternese, alla classe politica-imprenditoriale-religiosa, che ha come base Catania, diversamente da Acireale e Caltagirone.

A questo punto la domanda è: questo territorio, vuole essere una Città Metropolitana con una propria identità che affonda le radici nella storia e che prende forma da una natura che ha modellato le stesse città o vuole – sempre più – essere un arcipelago di città che rifiutano la possibilità di essere parte di una rete comune? Questo territorio, vuole prendere atto che si compone di parti tra di esse collegate (mobilità, risorse, vocazioni) oppure vuole esasperare recinti e micro appartenenze? In questo senso la partita si gioca sul piano della rappresentanza politica e sul piano della pianificazione. Il piano paesaggistico era un’opportunità che non è stata colta pienamente e l’ostinazione a immaginare il futuro di questo paesaggio attraverso approfondimenti circoscritti non è utile per rilanciare una terra strategicamente importante per il sistema Sicilia, Italia e Europa (lo dice la stessa storia).

Città o arcipelago metropolitano? Passa attraverso la capacità di realizzare un piano territoriale condiviso che tenga conto delle identità e delle potenzialità di tutti. Un piano che finisca di essere Catania-centrico e che tenga conto delle innumerevoli variabili del sistema, pensando alla scala geografica, e che nello stesso tempo sappia cogliere il senso della storia, in un quadro più approfondito. Fino ad oggi ogni città ha raccontato la sua storia – quando ha potuto – esaltando la propria parte a scapito delle altre, con una forma di campanilismo culturale poco utile alla verità. Se pensiamo che in questa Città Metropolitana ci sono 54 piani urbanistici, 54 regolamenti edilizi, 54 piani di protezione civile, 54… di un po’ di tutto: strumenti spesso decaduti, inutili alla collettività e funzionali alla speculazione delle mafie. Basterebbe ripartire da qui, dalla consapevolezza della storia, dalla consapevolezza dell’appartenenza ad un unico sistema culturale che ha collocato in punti diversi – per ragioni strategiche – lo stesso popolo.

Serve un coordinamento della rappresentanza politica credibile e operativo; un piano complessivo a partire dal piano paesaggistico (che deve essere rideterminato, implementato e ricurvato per incubare sviluppo reale). Serve cambiare strategia. Le politiche di pianificazione dal basso – proposte fino ad oggi – non hanno dato le risposte sperate.

 

photo Fabrizio Villa All Right Reserved

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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