Il fiume Simeto e la forma dell’acqua: il futuro della Valle è nelle nostre mani

Etna Fiume Simeto

Una valle, un fiume che l’attraversa. Le pietre, scavate, modellate, plasmate dall’acqua.

La forma della terra e del cielo, della montagna e delle città, rimandano a qualcosa di sacro, di arcaico, di ancestrale. Dei, ninfe, miti e favole; superstizioni e credenze popolari.

Una valle che porta il suo nome: Simeto. Lungo il suo corso, da Maniace a Catania, accoglie i luoghi antichi dell’abitare: Bronte, Adrano, Paternò, Motta Sant’Anastasia. Fino alla foce che si apre al mare. Un filo d’acqua che cinge l’Etna di fuoco e bagna la terra fertile che germoglia frutti, lungo il suo corso sinuoso.

La cronaca di oggi è impietosa. Il fiume è come un torrente, a volte sottile da sembrare un fantasma. A volte si gonfia per un attimo come per orgoglio, ma sbatte contro le tante barriere che l’uomo ha costruito per domarlo. La sua forma ricorda l’antico alveo e svela – qua e là – un rudere, un ponte, una traccia, un segno della sua potenza. Le rocce che lo circondano sono i documenti della sua esistenza, ma oggi è diventato un immenso giardino di agrumi. Negli anni ’50 faceva ancora paura, con le sue inondazioni, che sfioravano l’antica città di Hibla Major o Aitna (come preferite chiamarla) oggi conosciuta come Paternò.

Il fiume è stato addomesticato, imbrigliato, costretto a scorrere dentro un piccolo fosso. Le sue acque bagnano ancora la terra, accolgono gli uccelli, ospitano i pesci (anche se mostruosi, a causa dell’inquinamento), ma soprattutto è diventato il bacino di raccolta di ogni liquido prodotto dall’uomo. Le città, silenziosamente, rivolgono a lui macabre attenzioni. L’uomo silenziosamente lo sporca con ogni sostanza: pesticidi, rifiuti, carcasse. Eppure qualcuno invoca la civiltà del Simeto, come radice culturale, come luogo di bellezza, come dispositivo sociale, romanticamente. Forse serve guardare le città dal fiume e non il fiume dalle città. Guardare con realismo questo paesaggio straordinario, consapevoli che non basta evocarlo, è necessario tutelarlo, dagli stessi organismi politici e amministrativi – funzionali alla gestione diretta – che compongono i palinsesti della partecipazione; che lo usano con cinismo.

Prima.

A proposito di valle del Simeto. La forma del fiume, della valle; la sua profondità e l’ampiezza; non erano certo quelle di adesso. Forse la stessa valle non esisteva – almeno nelle adiacenze dell’antica acropoli di Paternò. La morfologia dell’alveo era differente e il rapporto con le città era più diretto. Le acque erano navigabili e collegavano le aree interne con il mare. Le città erano il nodo di interscambio, lo spazio dell’incontro tra la via fluviale e quella terrestre, che correva più a levante, lungo percorsi antichissimi, che collegavano città, santuari, porti e terre coltivate.
Le città (i villaggi in epoca protostorica) erano quindi i nodi di una rete di collegamento tra le parti del territorio che costituivano un unicum culturale. Il fiume a ponente e la strada a levante, inquadrava – le città – strategicamente.
Se il lettore volesse farsi un’idea più precisa, basterebbe raffrontare Mileto, ieri e oggi; il suo porto e la posizione rispetto al mare, nell’antichità (Turchia). Resterebbe stupito e disorientato, forse persino incredulo. Oggi a Mileto, tra il suo antico porto e la costa, ci saranno più di quindici chilometri, causati dai detriti di un fiume. Quello che vediamo oggi – nella nostra bella valle del Simeto – non ha nulla a che vedere con la realtà morfologica che appariva agli antichi, dall’ VIII secolo a.C. forse fino al XI secolo d.C.. Un fiume imponente, straripante, invadente, che s’insinua tra le pieghe delle sue colline e rallenta nelle aree portuali: non ancora individuate con certezza ma se riflettiamo, è facile farsi un’idea, di dove si possono trovare.

Dopo.

La domanda è cosa sarà di questa valle, di questo fiume con il passare del tempo. Se ci fermiamo a guardare il presente, considerandolo come persistente da sempre, commettiamo un gravissimo errore. Il fiume era, è e sarà. Ha cambiato forma, portata, percorso, profondità. Lo ha fatto negli ultimi diecimila anni cambiando le relazioni tra sé e l’uomo. Se proiettiamo nel futuro questo processo, il risultato è che il fiume scomparirà. Si trasformerà in un torrente, un filo d’acqua, fino a sparire. Cosa succederà a questa valle? In questi giorni l’Etna è senza neve e quindi i fiumi saranno più secchi. Piano piano, ormai da secoli, l’uomo ha accelerato il processo con le sue miopie politiche e culturali. Sappiamo come era, sappiamo come è, possiamo immaginare come sarà.

Questa è la domanda. Cosa faremo noi? Come collettività, sapendo che la sua sopravvivenza, non dipende solo dalla valle ma da un sistema idrico che riguarda uno spazio geografico più ampio e non solo. Forse dovremo solo prendere atto che scomparirà e quindi avviare nuove politiche di riconversione colturale, per esempio. Immaginare nuovi scenari climatici, pensando che la cosa più seria è che cambierà l’habitat, comunque.

Questa riflessione, nasce da un’osservazione: la visione di una carta geologica e morfologica – in fase di elaborazione – che mostra la morfogenesi nei secoli e prefigura lo scenario futuro (carta che tiene conto di studi autorevoli offerti dall’Ingv di Catania, sull’alveo del fiume).

Superato il momento di sconforto, non rimane altro che immaginare come l’uomo si adatterà. Oppure pensare alla sua possibile migrazione verso luoghi più accoglienti (tutti al nord).

Sta a noi scegliere se curvare verso un approccio più progettuale, che ridisegna il rapporto tra uomo e territorio e/o avviare processi di mitigazione (rallentamento dei processi) o aspettare fatalmente che tutto si compia (tanto noi non ci saremo, ma i nostri nipoti sì).

L’uomo può scegliere, ma prima deve essere consapevole della posta in gioco e delle sue risorse disponibili. Il pianeta cambia, naturalmente e lentamente, la sua configurazione. L’uomo ha il dovere di porre rimedio alle sue follie.

Foto Domenico Arcoria
Cartografia Ornella Palmisciano

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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