Teatri urbani: la città racconta l’intimità psicologica delle nostre esistenze

Teatri urbani: la città racconta l’intimità psicologica delle nostre esistenze

Tra le case, dentro la storia, lungo un sentiero di pietra. Un cammino che colleziona visuali, sguardi e relazioni intime. Anche quelle che celebrano l’amore carnale, nascosto da una siepe, dietro un muro, clandestinamente.

Una cupola, un portale, un campanile. Lentamente, uno dopo l’altro si legge il testo di una storia millenaria. Pietre, geometrie, luce e modelli. Compressioni che diventano estensioni. Lo spazio che si dilata fino a diventare un utero di architetture.

Teatri urbani: la città racconta l’intimità psicologica delle nostre esistenze La città si fa forma, flusso, iconologia. Si lascia attraversare come una foresta pietrificata. Le mani possono sfiorarla, toccarla e viverla intimamente. La luce ruscella, rimbalza e si nasconde dietro i cortili. Camminare da settentrione a mezzogiorno, da levante a ponente. Scoprire, scavare, raschiare, modellare le parti dell’urbe, anche dove esse sfiorano la natura addomesticata, la campagna.

La trascendenza dei sensi, la consapevolezza della storia, il sincronismo dello spazio che si stratifica nel tempo. Uomini, donne, mercanti, cavalieri, sacerdoti e demoni. Amori e vendette, riti e superstizioni. L’infinita gamma dell’abitare umano. Dove ogni leggenda è nascosta, dentro un labirinto di saperi storici e religiosi, diventati liturgia. Ogni dea si trova sovrapposta a un’altra dea. Come le pietre a cui l’uomo ha dato forma: di casa, di tempio, di strada, di piazza e di cimitero.

Alcuni spazi, nati per essere comunità, sono spenti, perduti tra macchine di ferro e fumo. Alcuni spazi, nati per seppellire, per celebrare, per barattare, oggi sono addormentati, sedati, imbrigliati. Lo svelamento, ha il compito di riportarli alla loro bellezza, alla loro primordiale funzione, essere il teatro della comunità.
Dentro questo spazio urbano mutevole e cangiante, dentro questo luogo, che profuma di incenso e di terra, che nasconde mille creature fatte di carne e di pane, trascorre la vita comune, come un fiume inarrestabile.

Un teatro all’aperto, luogo di rappresentazione della natura; di quella natura umana che urla, piange, soffre, ma che può anche ridere, scherzare e celebrare una morale per tutti. Tragedia e commedia. Una successione infinita di “stasimi” ed “episodi” introdotti da un “corifero” divino. Sacerdotesse, ancelle, maschere, attori che celebrano Maia, Demetra, Iside, Venere, fino alla Vergine Maria. La città ha una natura femminina, materna e violenta, profonda e leggera, fluida e solenne.

L’uomo deve riconquistarla, addomesticarla, amarla dolcemente fino a diventarne parte. Specie nelle sue membra più fragili, nelle sue parti più delicate, quelle dirute, abbandonate e martirizzate. La città ha bisogno di essere letta, attraverso le costellazioni, le giaciture, i flussi, le sacralità, le percorrenze, le permanenze e le luci che disegnano forme sulle pietre.

Un teatro della rappresentazione, che desidera essere e non apparire. La città si vuole scoprire, donarsi all’uomo all’intera collettività, sia quella consapevole che quella inconsapevole.
Le fabbriche antiche, come le città – in particolare quelle dirute, abbandonate e isolate – sono come organismi che hanno perso la loro funzione primaria: farsi abitare, accogliere, proteggere. La loro anima – che noi uomini chiamiamo in mille modi – si è ormai persa. L’uomo l’ha abbandonata, delusa, violentata, offesa. La fabbrica e la città tornano in questo modo allo stato selvaggio. Diventano irriverenti e maldestre. Dispettose verso chi le visitano occasionalmente o chi ha il compito di ricomporle.

Ora è tempo di agire, “praticamente”. Ora è tempo di agire dentro la città che la storia ci ha restituito: recuperandola, aggiustandola ma soprattutto vivendola. La musica deve penetrare nei vicoli, negli slarghi, nelle piccole piazze. La musica deve riaccendere il senso dell’abitare, come quando una banda musicale attraversa la città. E gli attori devono uscire dai teatri e ritornare tra i vicoli, dentro le case, sotto i portoni. L’arte della rappresentazione della natura dell’uomo deve farsi città, diventare itinerante per narrare l’intimità psicologica della nostra esistenza.
Musica, fuochi, processioni, teatralizzazioni, liturgie. Sono le condizioni per rigenerare quelli che ancora chiamiamo centri storici ma che rappresentano il nostro paesaggio intimo della memoria, quello che conferisce il carattere a tutti noi. Nomós arcaici che narrano l’uomo. Siamo le pietre che portiamo alla luce. Siamo gli dei che narriamo ai figli, siamo le parole che pronunciamo.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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