Crema amara: la morte ripresa con il cellulare e noi spettatori della vita degli altri

Crema amara: la morte ripresa con il cellulare e noi spettatori della vita degli altri

La morte della donna di Crema, ripresa dai cellulari dei passanti, è una notizia agghiacciante che deve scuotere le nostre coscienze.

L’indifferenza da una parte e dall’altra, l’esigenza di registrare un maledetto video da far vedere agli amici: una crudeltà senza fine.

La donna muore tra le fiamme mentre “noi” stiamo a guardare. Perché quel gruppo di “spettatori” siamo proprio noi. Noi che spesso guardiamo con indifferenza le sofferenze altrui.

Agire, intervenire, prendere una posizione rispetto a quello che avviene intorno a noi, sembra scuotere la nostra voglia di serenità. L’automobilista con la moglie interviene, lo fa anche un uomo con l’estintore e alla fine i vigili del fuoco ma è ormai troppo tardi, la donna muore. In fondo, lontani per non farsi vedere, gli sciacalli con il cellulare a registrare tutto. In fin dei conti la donna era malata, aveva disturbi psichiatrici. Noi no, noi siamo sereni e felici dentro una bolla d’aria che ci protegge, vivendo da spettatori, come in un reality.

Ormai sembriamo solo spettatori di una vita che altri simulano per noi. Chiudiamo le porte per non sentire, per non vedere, per non sapere. Lo facciamo costantemente, specie se le questioni sono del nostro intorno domestico. Siamo pronti a massacrare chiunque ma solo se abbastanza distante dal nostro mondo, perché nel nostro mondo siamo solo spettatori con il cellulare in mano.

Condanniamo e protestiamo per le cause degli altri, un dittatore dell’oriente, un incendio dell’Amazzonia, la perdita della libertà di stampa di un paese comunista (o fascista), per gli F-35, per il caporalato della regione vicina, per le mafie africane e del nord dell’Italia (se siamo al sud) e viceversa. Guardiamo la Francia sempre con imbarazzo, quelli sì che quando devono protestare fanno sul serio.

Persino i giovani cinesi sono più coraggiosi di noi e quelli rischiano tanto. Facciamo fiaccolate, processioni, raccolte fondi ma solo per cose molto lontane da noi, perché quelle sotto casa le registriamo con la telecamera, per il nostro piacere, come gli spettatori dei giochi al Colosseo.

Ma cosa ci meraviglia se persino in TV, i programmi che vanno per la maggiore non fanno altro che narrare quell’intimità drammatica che si vive dentro le mura domestiche. Tante storie che non hanno più la funzione educativa come la tragedia greca, il teatro, ecc., ma storie sconnesse che soddisfano la nostra voracità malata di notizie tragiche, perché vogliamo vedere senza essere visti e coinvolti. Ecco, ci piace assistere ai drammi degli altri senza essere visti, per evitare che qualcuno ci possa chiedere qualcosa.

Siamo come passanti che guardano le vetrine della vita. Osservano, desiderano, si rammaricano o si scandalizzano e poi vanno via verso la prossima vetrina. L’indifferenza, l’apatia, il distacco emotivo. Lo facciamo nelle cose intime, nella politica, con gli amici e i passanti occasionali. Lo facciamo verso quelli che tendono la mano all’uscita da panificio, lo facciamo quando guardiamo la TV con le immagini di naufraghi, di profughi, di uomini e donne tra le bombe intelligenti del potente di turno. Lo facciamo anche quando attraversiamo le nostre periferie urbane, dentro i nostri ghetti, quando divoriamo il nostro patrimonio culturale e ambientale.

La grande tragedia di questo tempo è l’indifferenza e il disimpegno nella vita politica e sociale. Tutti a guardare come spettatori, tutti che hanno paura di essere dal lato sbagliato. Perché non solo guardiamo a distanza ma vogliamo farlo dal lato giusto del fiume. Silenzi che pesano come macigni, pur di restare dal lato giusto o comunque pronti a cambiare senza conseguenze.

Siamo la generazione che non sbaglia, che ha sempre ragione, che giudica e condanna l’altro, tranne se stesso. La generazione che non molla, non desiste, non fa passi indietro, che partecipa a tutte le processioni contro qualcosa e qualcuno senza sapere il perché. Poi quando questo qualcuno o qualcosa è sotto casa, tutti dentro a pelar patate, a pettinare bambole, a vedere la TV. La generazione dei numeri uno, perché il secondo è già una tragedia.

I fiumi possono inquinarsi, i suoli cementificarsi, le città crollare, la memoria perdersi, gli uomini morire, le famiglie disperdersi, gli alberi sparire ma tutto questo non ci riguarda, se avviene a pochi metri dalla nostra bolla, noi siamo per i grandi sistemi – degli altri. Siamo come conigli, quelli che al massimo scavano gallerie sotto le montagne.

A Crema una donna è morta e abbiamo i video che narrano questa tragedia, ne abbiamo tanti perché in tanti guardavano senza intervenire e chi è intervenuto nulla ha potuto. Ecco, la metafora è proprio questa: nelle nostre città muoiono tante cose, l’identità, la dignità, il decoro, la solidarietà, l’educazione, l’onore. E di queste morti abbiamo tanti video fatti al cellulare, pochi intervengono e spesso è troppo tardi. Dobbiamo riattivare l’impegno politico diffuso in tutti i luoghi del nostro vivere.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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