Stelle, le notti segrete di Roccalumera per ritrovare il senso della propria esistenza

Stelle, le notti segrete di Roccalumera per ritrovare il senso della propria esistenza

La notte, quando le stelle danzano silenziose e le luci della città sono lontane, si ritrova il senso della propria esistenza.

Le costellazioni sembrano le tracce disegnate nel cielo dei luoghi sacri che l’uomo ha edificato nel tempo. Le stesse città – fondate sulla terra – sembrano il riflesso delle stelle che ci guardano nella notte. L’estate ricompone questa intimità spirituale ricollegandoci all’infinito cosmo.

Il mare di notte, lungo la terra sottile che lambisce dolcemente, spumeggia e bagna ogni cosa.

Sfiora quella terra morbida e qualche volta aspra che si lascia modellare insinuandosi tra le sue pieghe, vibrando dentro il suo corpo di donna.

Il suono delle stelle e del mare accompagna la nostra presenza e la terra, illuminata dai fuochi sacri – cari agli dei – culla i nostri pensieri fluttuanti. Le mani desiderano disegnare le costellazioni mentre bagnate affondano le dita dentro la terra fertile e accogliente. I nostri corpi, nudi, sono nascosti dall’oscurità della notte, sfiorati dalla frescura che viene dal mare e gli occhi indagano verso ogni forma, ogni suono, ogni ricordo.

Lo sguardo ci restituisce l’orizzonte, l’infinito, puntellato di piccole luci, di quelle piccole barche che i pescatori porteranno lontano per tirare le reti ricolme di pesci.

Sulla spiaggia, un esercito di ombrelloni bianchi, allineati e svettanti verso il cielo. I lettini piegati a notte che nascondono misteriose presenze di giovani coppie. Sembra che tutto dorma in attesa della mattina seguente, quando ogni silenzio sarà rotto dall’invasione ordinata di uomini e donne che si muoveranno frenetici come formiche al sole.

Dentro questo paesaggio notturno, la memoria costruisce nuove costellazioni. Dentro questo paesaggio nascosto, i corpi cercano corpi. Dentro questo paesaggio di orizzonti, gli sguardi cercano forme sonore. L’estate volge al termine e viene voglia di trattenere ancora qualche istante per noi, per disegnare ancora i corpi nudi di quelle donne che ci riportano alle dee dell’antichità. Dentro questo paesaggio di ricordi riemergono le parole di un poeta che visse Roccalumera – lungo le coste del mar Jonio – come un’isola segreta dove custodire i suoi sogni.

Un ponte tra due terre. Un filo tra due cieli. Un sogno tra due fiumi. Le vele, il vento e la sabbia grigia. La spuma irriverente accarezza il mio nudo corpo. Nuvole piene di pioggia dolce. Lontano, pazienti pescatori.

Uomini, segnati da rughe profonde. Mi perdo dentro un mare fertile. Istante illimitato. Dilatato.
Uomini e donne ormai scomparsi. Sopravvissuto, guardo il mare come un ponte verso un’Itaca nuova.

Fu dolce, quel corpo di acque marine, come donna di morbida pasta. Profumi di spezie siriane, nei fiumi nascosti, tra sassi di pane. Temenos, misura del tempio cristiano. Un gelsomino santifica il luogo.

Due donne sedute, si abbracciano di parole antiche e le case guardano silenziose. Proteggono la via che porta al mare di levante. L’ermetico poeta, ascolta dietro un vicolo di minatori antichi.
Ritrovo una dea fiorita e di sale. E il fiume ritorna, portando cristalli di allume. Quiete, plasmata dalla spuma marina e mani leggere di vento che accarezzano il corpo disteso sui sassi, bagnati di acqua salata, e le dita accarezzano i fogli ruvidi, di un vangelo apocrifo.

Una nave da crociera sembra una città galleggiante, ricolma di carne nera, che fugge da una Gerusalemme senza pace. La musica sefardita entra dentro me, come la brezza fresca della sera e sveglia i miei sensi.

Una fiaba aramaica nasconde il mio destino e illumina settantadue sassi sotto la luna.
Un sangue solca la mia pelle, da dentro, fino a diventare un fiume di porpora.

Gli ombrelloni bianchi ormai spenti, come cavalieri templari, trasformati in pietre da cattedrale.

Mare. Dentro i miei occhi. Di sale e di pane. La regina siriana a sud di questa terra è ormai dietro l’elefante,
che sprofonda nelle acqua di capo sant’Alessio.

Il tramonto è dentro la mia anima e rigonfia le mie vene per l’ultima volta.
Natura bagnata, mentre la pioggia scivola tra le foglie, e riporta – dai fondali della mia memoria – una malinconia antica nella mia anima.

La dolcezza di un incontro segreto tra i boschi dell’Etna. Piove, e Zeus tuona ancora. La terra si bagna e il profumo invade l’aria. Sento le braccia di Tifone che sfiorano le mie mani, protese verso est. E il tramonto spegne gli ultimi fuochi.

Ultima sera. Ultimo mare. Ultimo tramonto.
Domani il ritorno su Aitho (Etna). Alle sue stelle. Avevo bisogno di quest’isola. Di quest’approdo, di questo viaggio. Le nuvole cariche di pioggia non fanno paura. Sono solo un diverso colore del cielo.

Vibrante, vero, fertile, scultoreo, sincero. E sia pioggia. Coprirò con travi nuove la mia cattedrale.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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