Letterina a Babbo Natale: “Portaci aria nuova e un sacco di normalità. Manda giganti e non nani da giardino”

Letterina a Babbo Natale: “Portaci aria nuova e un sacco di normalità. Manda giganti e non nani da giardino”

Forse faccio ancora in tempo a mandare la letterina a Babbo Natale.

Per farlo bisogna tornare ad essere bambini e ricordarsi – almeno per una notte – di quella straordinaria purezza del nostro sguardo di quando andavamo a sbirciare sotto l’albero pieno di luci e di regali, alla ricerca di tracce e indizi che ci facessero riconoscere la presenza di quel vecchio con la barba, vestito di rosso di cui tutti parlavano.

Vecchio con la barba, vestito di rosso, pieno di regali e accompagnato dalle renne, venuto dalla Lapponia e arrivato non si capisce quando e soprattutto come.

Dal camino? Dalla porta principale? Dall’ascensore? Insomma, conta poco, l’importante è che comunque arrivava e pieno di regali. Quelli desiderati oppure inaspettati. Grandi, piccoli, utili, frivoli, scontati e improvvisati. Era comunque una festa di colori e di luci. Dietro quell’omone grasso e impacciato, un vocione spesso familiare che ci ricordava qualcuno, magari un nonno, uno zio, un padre. Durante l’anno, dopo i regali degli antenati (i morti), veniva proprio Babbo Natale che anticipava la Befana (veramente questa faceva paura). Sì, perché mentre Babbo Natale non ti giudicava al massimo non esaudiva i tuoi desideri, la befana era più severa. Se non meritavi i regali, ti puniva con il carbone. Che poi in qualche caso faceva pure comodo.
Per i bambini il tempo dei regali finiva con la Pasqua, con la sorpresa dell’uovo di pasqua, che concludeva il tempo antropologico della morte – iniziato a novembre – seguito dal tempo della vita. Ma questa è un’altra storia.

Superate tutte le possibili diffidenze, ritrovato l’indirizzo di Babbo Natale, consultati alcuni bambini esperti in materia – ormai, purtroppo, rimasti in pochi – non mi rimane che scrivere una letterina, la più classica delle letterine, rivolta proprio a lui: confido nella sua benevolenza e, perché no, nella sua attenzione.

Caro Babbo Natale, che poi credo che Babbo sia il cognome e Natale il nome, ma forse sbaglio perché penso come gli adulti e cosi non va. Io, forse noi, ti vogliamo chiedere alcuni regali, di quelli che non arrivano con la slitta dentro i pacchi, quindi non saranno un problema per te, nessuna fatica. Sono regali di cui abbiamo veramente bisogno, necessari per tutti noi, per le nostre comunità, per la sopravvivenza del pianeta.

Abbiamo bisogno di politici veri, di quelli che rappresentano i bisogni reali della gente, di quelli che sanno ascoltare e anche fare.

Politici che siano al servizio di tutti e non di pochi, che abbiano capacità e determinazione, che siano efficienti e lungimiranti, senza quella futile teatralità che li rende quasi attori di una tragedia scontata. Politici che sappiano guardare al futuro, pianificandolo con saggezza. Politici miti, pratici e sognatori, innovatori e attenti cultori della memoria. Rappresentanti di tutti e non di pochi, rappresentanti della gente e non di se stessi. Giganti e non nani da giardino.

Abbiamo bisogno di un Paese onesto ma anche di uno Stato onesto. Uno Stato che aiuti i cittadini, li sostenga per realizzare le condizioni migliori di socialità e benessere.

Uno Stato che non inventi – attraverso complicate alchimie – strumenti fintamente utili; per esempio le semplificazioni, gli incentivi, i ristori, i contributi le facilitazioni e diavolerie simili che sembrano una corsa a ostacoli senza fine. Se proprio vogliamo imitare gli altri Paesi, facciamolo bene e non scimmiottando norme che si accavallano ad altre norme per determinare un labirinto impossibile. Perché alla fine del teatrino, le mafie, tutte, si insinuano tra le pieghe della infinita complessità delle procedure, vanificando gli obiettivi di partenza. Ecco vogliamo uno stato agile e non furbo, utile e non pesante, paterno e non crudele. Forse anche i disonesti lo troverebbero più affascinante. Quando tutti noi sentiamo di una nuova semplificazione tremiamo spaventati.

Abbiamo bisogno di ritrovare il senso della vita. Le ragioni della nostra esistenza.

I tempi e le modalità per essere veramente felici. Le cose semplici, la lentezza rigenerante, i piccoli gesti. I profumi della terra e delle donne. La rugosità dei legni e delle pietre; il ruscellamento della luce lungo le pareti, la sacralità dei luoghi, la tensione inebriante della sorpresa. L’odore dell’incenso nel naos della nostra vita. Il profumo del pane quando incontra l’olio. La felicità di una donna quando sfiora un bambino o trova un tesoro nascosto dalla storia. Abbiamo bisogno di ritrovare un sentiero perso – invaso dalla foresta – che si chiama umanità, senza rinunciare alla modernità.

Abbiamo bisogno di socialità, di condivisione, di alleanze, di convergenze, di argomentazioni, di ideologie, di battaglie perse, di coraggio, di speranza, di determinazione, di saggezza, di sapienza, di sognare, di realizzare un goal all’ultimo minuto, di registrare una nuova canzone, di sentire una poesia, di camminare dentro il vecchio mercato per comprare le cose che servono oggi, di piangere per un film, di ricordare, di inventare, di costruire, di sorridere per uno sguardo, di sfiorare il corpo dell’altro, di raccogliere i frutti del nostro lavoro, di passeggiare e prendere un caffè, di sentire la voce di un coro.

Abbiamo bisogno di normalità, caro Babbo Natale, perché in questo ultimo anno, molti di noi sono andati via in silenzio, soli, dentro un sacco di plastica, lontani dai cari e questo non ci è piaciuto per niente. Abbiamo bisogno di aria nuova, di una rinascenza.

Chi si è assunto la responsabilità politica e di governo di questo Paese e delle città, deve riflettere. Agire o morire.

Abbiamo bisogno di ripartire, ricominciare senza demagogie e retoriche, senza luoghi comuni e frasi fatte. Rinnovando, rigenerando, ristrutturando la nostra “casa comune”. Serve un cambio di passo e una ridefinizione degli obiettivi condivisi.

Caro Babbo Natale, se puoi, portami almeno questo, ché per la play station ci penso io.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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