La corsa dei cavalli e la città che brucia: c’è bisogno di una cura

La corsa dei cavalli e la città che brucia: c’è bisogno di una cura

La corsa dei cavalli, a ovest di Paternò, che ha invaso i social ci impone una riflessione anche alla luce dei tanti commenti che rimbalzano in queste ore, per compiere una ricognizione più ampia e organica, evitando di considerare questo brutto fatto come isolato e ininfluente.

Dentro ogni città c’è un piano sotterraneo, una zona nascosta, un livello inaccessibile. Dentro ogni città c’è uno spazio occupato dalla superficialità, dall’ignoranza, dalla cattiveria. Non serve illudersi che ci siano luoghi privi di queste anomalie oscure. Come esiste il bene, esiste il male, così come le idee da difendere per immaginare un futuro migliore.

La corsa dei cavalli e la città che brucia: c’è bisogno di una curaStrazia la consapevolezza che da una parte questo territorio ha eccellenze, risorse, memorie e potenzialità straordinarie e dall’altro serpeggia un’apatia dirompente, un’atavica rinuncia a fare, un provincialismo esponenziale che genera “recinti” sempre più chiusi.
Lo sguardo di chi è fuori da questo mondo, di chi lavora altrove, di chi è dovuto andare via per mille motivi – costretto o per scelta – rimane basito, quasi rassegnato, ma profondamente triste.

C’è chi di fronte a tutto questo nasconde la polvere sotto il tappeto, nasconde ogni criticità, ogni traccia di questo malessere collettivo, forse incapace di reagire o di capirne le ragioni.

Che volete che sia una corsetta di cavalli? Consapevoli che la stessa corsetta si celebra ovunque: ad Adrano, nella vicina Catania e anche oltre. Che volete che sia? Solo una corsetta di cavalli. Il tappetto si è fatto piccolo e la polvere grossa.

C’è chi di fronte a tutto questo si spegne, si allontana, si perde, si rassegna, si adatta, si copre, si nasconde.

Trova nuovi equilibri, cerca mediazioni, si traveste di qualcosa, parla d’altro, cerca nuovi colori per poi chiudersi nelle proprie effimere certezze. Si costruiscono recinti, limiti, clan, gruppi, congregazioni fino a polverizzare la collettività, fino a raggiungere la dimensione dell’atomo sociale: l’io al di sopra di tutto e di tutti, come un re su un regno di pochi centimetri quadrati che si beffa di dio, dei santi e delle idee.

Prima l’uomo, poi le idee. Perché la folla vuole vedere il sangue, sentire l’urlo, assaporare la polvere come nell’arena.

La corsa dei cavalli e la città che brucia: c’è bisogno di una curaChe poi è la stessa immagine della corsa dei cavalli: una teatralità spregevole, irriverente, arrogante e mostruosa. Si pensa che sia solo un problema di controlli ma la questione è più complessa. Le città che non hanno investito nella cultura, nell’educazione, nella bellezza, nella valorizzazione delle sue risorse, nel futuro, nell’inclusione, nell’innovazione, nella solidarietà (quella vera, sobria e discreta), nella mobilità, nell’ambiente, nella ricerca: sono città destinate alla scomparsa progressiva. Nessuno ha rilevato che le nascite – negli ultimi cinque, sei anni – sono passate da circa 600 unità a 300, ogni anno; che le morti sono più di 300 e quindi il saldo diventa sempre più negativo.

Nessuno ha censito le attività che si chiudono e perché la popolazione si sposta altrove, desertificando il tessuto sociale. La corsa alla sindacatura del 2022 potrebbe essere la corsa a diventare il re del nulla, la ricerca frenetica di una corona senza regno. Nel 1994 eravamo quasi 50.000 ora appena 43.000 abitanti.

Dietro questo malessere che la corsa dei cavalli rappresenta in tutta la sua drammaticità, c’è l’impotenza della politica e la voracità senza fine dei faccendieri (pubblici e privati).

La corsa dei cavalli e la città che brucia: c’è bisogno di una curaTutti impegnati a raschiare il fondo, a trovare il tesoro nascosto, a rubare qualcosa. Torna nella mente quella storiella di Giovanbattista Nicolosi che scappò da questa città e non importa se sia vera, quello che conta è il significato per la gente. Torna alla mente quella marea di gente che oggi vive altrove, indecisa se tornare, consapevole del rischio per i propri figli. Perché questa città è un teatro delle comparse dove il finale è previsto: paura, rassegnazione, furberie. In molti resteranno dentro le mura, a contemplare cavalli di legno. In molti penseranno di avercela fatta ancora una volta, come sempre, con le solite 30 monete, tradendo ogni cosa. Ma la notte, la città potrebbe bruciare, per sempre e le urla di vittoria si trasformeranno in dolore profondo.
Laocoonte sarà sacrificato ancora una volta. Inghiottito dalle acque e avvolto dai serpenti.

Ma mi chiedo, a cosa è servito studiare la storia se non per evitare di ricommettere gli stessi errori? C’è un margine per invertire tutto questo? Ci sono gli uomini e le donne coraggiose? Si può rompere questo incantesimo? Possiamo sperare in un mondo diverso in cui tutti la smettano di dire sempre: no, non si può fare, non qui, non adesso. Si può sperare?
C’è ancora un barlume di dignità tra chi ha le responsabilità di cambiare le cose? Perché viene un dubbio: ci sono o ci fanno?

Più facile è colpire la verità che fa male e più semplice è sorridere, compiacersi di essere invincibili, potenti, unici, insostituibili. Più facile è costruirsi le complicità che fanno comodo, attorniarsi di giullari e comparse sempre allegre, ridere, sorridere e urlare vendette. Più facile è nascondersi dietro i veli, le veline, i principi, le feste.
Più complicato è capire, analizzare, valutare, scegliere, programmare e chiedere scusa.

Questa città è malata. Vittima di un esorcismo antico, priva di nobiltà. Questa città ha bisogno di una “cura”.

Il Covid ammazza chiunque e vedere le immagini della corsa dei cavalli, in contrada San Marco, con quella partecipazione di uomini e donne di ogni età, mi conferma che i sentieri “culturali” intrapresi ad oggi sono fallimentari. Controlli, condanne, dichiarazioni? Nulla. Speravamo di sentire qualcosa su San Marco, ma nulla. Serve una cura, una cura vera, ma serve sempre più coraggio. Vediamo chi esce per primo dal cavallo di legno?

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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