Riappropriamoci delle nostre città: giocando, passeggiando, incontrandoci

Riappropriamoci delle nostre città: giocando, passeggiando, incontrandoci

Una città non è mai una pietra, fissata a terra e per sempre.

Riappropriamoci delle nostre città: giocando, passeggiando, incontrandociUna città non è un soprammobile da conservare vicino il letto di un fiume, sulla riva del mare o aggrappato a un declivio.

Ma soprattutto una città non è mai uguale a se stessa, lungo il suo divenire nel tempo. Una città può essere bella, ricca, produttiva, sicura, d’arte, di mare e di montagna. Ma una città è prima di tutto un organismo in continua trasformazione, come la natura. Un artificio – quasi come le armi forgiate da un dio – che vive come un albero, un fiore, un corso d’acqua, una tempesta o uno stormo di uccelli. La città si adagia alla terra, la scava e svetta verso il cielo. Una città è profonda, insidiosa, misteriosa, come una foresta.

Questa città si estende, si connette, si relaziona ad altre città, fino a creare una costellazione di umanità.

Pulsa, soffre, galoppa, ma la cosa più intrigante è che accoglie. Ospita e protegge l’uomo, sempre spaventato dalla natura selvaggia.
Dentro, qualche volta anche nei suoi margini, genera alcuni vuoti specializzati, alcune pause edilizie, certe sorprese lungo sentieri di pietra, stretti e tortuosi, che esplodono come una festa di paese e si chiamano piazze, teatri, gallerie d’arte, musei, viali, parchi, mercati, campi da gioco e palestre, stazioni della metro e ristoranti, caffetterie e biblioteche, librerie e pub, chiese e cimiteri.
Queste pause tra le case abitate, questi spazi spesso attraversati e vissuti velocemente, questi luoghi dell’eterotopia, della memoria, della festa e della morte, questi luoghi sono lo spazio vitale che chiameremo: della socializzazione, essenziali e indispensabili per parlare di città; se non fossero presenti oppure nascosti, non potremmo parlare più di città, ma di un enorme camera da letto: luogo dove si dorme e basta. (non pensate ad altro, per favore, non è il momento).

Queste premesse sono utili per individuare alcune possibili riflessioni.

Alcune città atrofizzano questi luoghi, possono persino cancellarli o invaderli con usi impropri. Ma la cosa più grave è che questi spazi sono nati come una costellazione di luoghi, spesso carichi di storia (vale anche per le nuove periferie) e di memoria, che li rendono i nodi vitali del policentrismo urbano, utile per la circolazione delle idee, delle cose e degli esseri viventi. Alcune processioni sacre, le gare ciclistiche, le partite a pallone tra i bambini, i mercati, la passeggiata amorosa, le storie d’amore clandestine, la salsa della nonna e il latte da prendere in salumeria. Tutte liturgie e consuetudini che rendono quella porzione di mondo, la nostra casa comune. Viva, dinamica, rassicurante.

Ma qualcuno atrofizza ogni cosa, le palestre chiuse, i musei chiusi, le gallerie d’arte abbandonate, ogni spazio della socializzazione lasciato al suo destino. Si perde ogni giorno il senso della comunità per sviluppare una competizione esasperata che ha, come unico scopo, quello di recintare sempre più parti di città, anche tra città e città, perdendo il senso della connessione. Non sappiamo, se è prima di tutto un fenomeno socio-culturale, che determina una nuova forma di città o la stessa forma della città (in metastasi), che determina una nuova socialità, malata, edonista, personalistica ed egoistica. L’orto è mio e lo gestisco da me.

Le parrocchie si svuotano, le librerie e i circoli culturali chiusi, il volontariato ridotto all’osso, lo sport orfano di impianti e strutture, l’accessibilità (urbana e extraurbana) praticamente virtuale, la sicurezza urbana precaria, la disponibilità delle risorse idriche e più in generale energetiche al lumicino (anche niente). Eppure abbiamo impiegato secoli per dare alla città la forma più funzionale a viverla con gioia. Abbiamo impiegato secoli per assestarla, per attrezzarla di ogni confort. Eppure oggi, in alcune parti della nostra isola felice, siamo quasi al capolinea. Solo timidi bagliori di comunità. Surrogati di città, finte comunità. Una città che vive sui social, sui titoli dei giornali, sui manifesti affissi ai muri dalle pietre cadenti. Città che vivono tra una realtà virtuale propagandata e il sottile spazio che c’è tra il pavimento e il tappeto che copre ogni cosa. Ci sono due bellissime opere di Francisco Goya che rappresentano bene questa visione. Quelle che rappresentano – in due momenti diversi dell’artista – la festa di San Isidro a Madrid.

Le città sono stravolte dalle mille trasformazioni che la tecnologia impone e ancora ci chiediamo cosa succederà tra mezzo secolo.

Riappropriamoci delle nostre città: giocando, passeggiando, incontrandociEsisteranno ancora gli spazi reali della socializzazione? Avranno un senso le piazze, le passeggiate, gli incontri reali. Saremo capaci di costruire una nuova etica dell’incontro? La nostra vita sarà un enorme videogame con realtà aumentata? Sentiremo ancora la signora di sotto che cucina la polpa fresca di pomodoro?
Dobbiamo farci queste domande oggi, per avere risposte coerenti e sostenibili domani. Se non cogliamo il nesso tra la forma della città (in evoluzione), le innovazioni tecnologiche, le modifiche della struttura sociale, le regole etiche che cambiano, il valore della memoria, l’esigenza di vivere in armonia con questo pianeta (non esiste un piano B), non riusciamo a risolvere quel cortocircuito tra cittadino e città che sta logorando le nostre comunità. Spesso si assiste all’impotenza di chi ha la responsabilità di governare-progettare. Azioni senza la consapevolezza delle reazioni. Azioni puntuali e disarticolate. Azioni occasionali e improvvisate. La politica qualche volta definisce questi temi secondari ma sbaglia.

Conosciamo la morfogenesi delle città e dobbiamo individuare modelli possibili di sviluppo per governare le trasformazioni. Dobbiamo pensare e ponderare le scelte, perché prima o poi i nodi vengono al pettine. Il patrimonio edilizio si sta degradando, gli spazi della socializzazione in evaporazione, le reti in obsolescenza.

Serve un contributo al dibattito anche e soprattutto nei luoghi della perifericità, serve riappropriarci della città, giocando, passeggiando, incontrandoci.

Aprire alla comunità attraverso un patto di solidarietà urbana. L’Urban Center? Magari evitando pericolosi surrogati che anestetizzano la massa critica. Serve una visione di sistema, a tutte le scale, per tutti i temi. In caso contrario la politica, le università, l’imprenditoria e le professioni, hanno fallito. Ognuno di noi ha l’esempio sotto casa, servo poco puntare il dito.

Riappropriamoci delle nostre città: giocando, passeggiando, incontrandoci

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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