Comunicare l’architettura: “render” l’idea è ammaliante o fuorviante? Il caso del nuovo stadio di Milano

Comunicare l’architettura: “render” l’idea è ammaliante o fuorviante? Il caso del nuovo stadio di Milano

“Dopo l’annuncio del progetto vincitore per il nuovo stadio di Inter e Milan – la “Cattedrale” di Populous – sotto la Madonnina non si ferma il derby tra favorevoli e contrari all’opera che, inevitabilmente, cancellerà il Meazza e la sua storia” (Milano Today).

Comunicare l’architettura: “render” l’idea è ammaliante o fuorviante? Il caso del nuovo stadio di Milano“I render sono – spesso – la rovina dell’architettura contemporanea. Auguri di buon Natale al Tecnigrafo. La buona architettura è verità.” Lo dice Giancarlo Leone (architetto siculo-lombardo) sui social sintetizzando l’opinione di molti che in questo momento sono stupiti o incantati dal render diffuso sui media che comunica il progetto vincitore. Il render è il processo che permette di ottenere, a partire da un modello tridimensionale elaborato al computer, un’immagine artificiale molto realistica.

Nella sostanza, il progetto prevede la demolizione del santuario del calcio italiano, il mitico Meazza, per costruire un nuovo stadio che a qualcuno ricorda “più l’Auchan di Corsico piuttosto che un impianto sportivo ” (lo dice Marco Bestetti, (Consigliere Comunale di opposizione). Ma Carlo Monguzzi (Consigliere di Maggioranza) non scherza dicendo che “il nuovo stadio verrà fatto in Amazzonia, non a San Siro. Dal rendering presentato dalle squadre si vede chiaramente il nuovo stadio praticamente immerso negli alberi, non ci sono più neanche le case popolari. L’unico luogo così è l’Amazzonia. Dunque abbiamo vinto” (ironizza).

Lasciamo perdere la questione delle procedure urbanistiche, l’eventuale coinvolgimento dei cittadini nelle scelte e i tecnicismi del caso; andiamo oltre e riflettiamo sul rapporto tra architettura e comunicazione. La cosa che colpisce tutti è la scomparsa delle preesistenze intorno allo stadio nuovo, l’enorme quantità di spazio a verde e l’oggetto iconico al centro come un fungo. I milanesi sanno di cosa stiamo parlando e conoscono benissimo la storia di questo luogo leggendario.

Alcune affermazioni conseguenti al post di Giancarlo Leone sui social, meritano una citazione.

Paolo Frello (autorevole voce dell’architettura): “Nel video di presentazione del progetto non c’è una macchina e nemmeno un bus. Come nelle pubblicità della Mercedes dove non c’è mai traffico”.
Vincenzo Latina (uno che ha vinto la medaglia d’oro per l’architettura): “L’urban Jungle è la più grande mistificazione della contemporaneità, è la speculazione travestita da buoni propositi. Le strade dell’inferno sono lastricate dai buoni propositi. Auguri da Tarzan”
Dario Sironi (architetto e docente): “È il VIRUS DELLA VERZURA ARCHITETTONICA inoculato da Stefano Boeri, agli italiani ed al mondo intero, non sparirà facilmente!
Vera Greco (che di paesaggio e di ambiente è un’esperta): “ Ahahahhahah! San Bosco…. Giovanni, giusto? (Ex San Siro)
Le altre sono sulla stessa linea e in altri blog l’orientamento è uguale. Ma cosa succede? Veramente tutta colpa di Stefano Boeri? Non credo proprio”.

Comunicare l’architettura: “render” l’idea è ammaliante o fuorviante? Il caso del nuovo stadio di MilanoRaccontare l’architettura è sempre più complicato. Non entriamo nel merito della proposta in questione – che non conosciamo – proprio perché è comunicata in maniera sospetta. Lo strumento del render è oggettivamente affascinante e ammaliante ma nello stesso tempo fuorviante. Una specie di illusione delle verità che nasconde la verità. Vogliamo partire dall’inquadratura? Distante e a volo d’uccello, un oggetto architettonico che può essere tutto e il contrario di tutto, da una prospettiva irreale (tranne che pensiamo di raggiungerlo in elicottero). Il verde intorno come la maionese quando dobbiamo coprire altri sapori. Il contesto sparito perché quello ci avrebbe costretto a guardare più da vicino, e per una produzione di architettura seriale non funziona. Nel rapporto tra figura e sfondo, la figura deve essere indecifrabile, evocata, come una pittura impressionista, lo sfondo intercambiabile oppure più coerente al monocromatismo della volta celeste. Spesso queste architetture assomigliano a stazioni orbitanti collocabili ovunque. Ma quello che conta è lo storytelling del progetto: green, smart, social, e tanto altro (sulla carta, anzi sulla cartolina).

Ma poi cosa vogliamo? Chi sono i decisori, la committenza? Non abbiamo inventato noi stessi il concetto di partecipazione dal basso? Cosa abbiamo da lagnarci? Un architetto ha bisogno di piante, prospetti e sezioni, di prospettive e assonometrie, di disegni tecnici per capire. Non certo di belle cartoline dall’Amazzonia. Oggi vale solo la cartolina e deve essere bella, incantevole almeno per ammaliare il decisore. Come scegliamo se non abbiamo una bella cartolina, un video? Realizzare un modello in scala significa capire, misurare, ordinare. Un render è più efficace per “vendere” l’idea e noi tutti stiamo sostenendo questa pratica da tempo. il tema della comunicazione del progetto di architettura è ancora aperto e irrisolto. Il verde e le vedute dall’alto la soluzione tampone. Una specie di profumo inebriante per conquistare la nostra preda, il committente che di solito non è quello di un tempo, oggi abituato solo alle cartoline delle riviste patinate. Ma perché lagnarsi? Alla fine sarà consumato l’ennesimo processo di trasformazione che via via cambierà forma e sostanza per adeguarsi alla realtà del topos. Rimarrà il ricordo della cartolina, che incanterebbe chiunque.

Forse le scuole, le riviste, e gli stessi testimonial autorevoli dell’architettura dovrebbero studiare un modo diverso di narrare il progetto. Tornando alla verità, alla coerenza, alla matericità, alle relazioni studiate. Una rivoluzione dentro la rivoluzione digitale. Lo schizzo rimane ancora oggi quel gesto semplice che racconta tutto. il modello in scala la morfogenesi dell’idea. Il disegno la sua espressione più nobile. Ma il render ci rende tutti uguali e forse abbiamo bisogno di questo per non aver paura di scoprire che progettare è un esercizio della mente assai complicato. Forse dobbiamo anche prendere atto che cosi facendo i decisori dovranno fare uno sforzo di immaginazione per capire e non limitarsi a valutare una bella foto (finta) dentro un verde (finto) in un luogo (finto). Innovazione non significa superficialità e la complessità del progetto merita più rispetto.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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