Caso Ranucci, rischio “ritorno ai tempi bui”: allarme sul clima di intimidazione contro i giornalisti
ROMA – L’atto di intimidazione che ha colpito Sigfrido Ranucci viene già definito uno dei più gravi degli ultimi anni. Un segnale che, come ha avvertito il procuratore di Roma Francesco Lo Voi, «non può consentire che si torni ai tempi bui». Il clima di minaccia nei confronti del giornalismo d’inchiesta torna al centro del dibattito nazionale, riaccendendo l’allarme sulla tenuta democratica del Paese.
La storia dell’Italia recente è purtroppo segnata da episodi di violenza e intimidazione nei confronti di cronisti e giornalisti d’inchiesta. Un precedente simile a quello di Ranucci risale ai casi dei giornalisti anticamorra Rosaria Capacchione e Roberto Saviano. Il 14 luglio scorso si è chiusa, tra applausi e commozione, una vicenda durata 16 anni, iniziata nel 2008 con le minacce esplicite del boss Francesco Bidognetti durante il processo Spartacus a Napoli.
Andando più indietro, nel 1993 Cosa nostra progettò un attentato per uccidere Maurizio Costanzo a Roma. Cento chili di tritolo posizionati in via Fauro, dove il giornalista passava ogni sera dopo la registrazione del Maurizio Costanzo Show. Costanzo sopravvisse, ma smise di occuparsi di mafia. Diversa e tragica la sorte di Giancarlo Siani, cronista ucciso dalla camorra a soli 26 anni nel 1985.
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ricordando Siani, ha definito «l’assassinio dei giornalisti un attentato alle nostre libertà». Una memoria dolorosa che comprende nomi incisi nella storia civile italiana: Mauro De Mauro (1970), Carlo Casalegno (ucciso dalle BR nel 1977), Walter Tobagi (1980), Giuseppe Fava (1984, a Catania), Mauro Rostagno (1988), fino a Peppino Impastato nel 1978, voce scomoda contro Cosa nostra.
La lunga sequenza di minacce, attentati, gambizzazioni e omicidi – da Montanelli a Emilio Rossi – mostra che gli attacchi al giornalismo libero non appartengono al passato. Il caso Ranucci, oggi, riapre una ferita mai realmente rimarginata.
