La memoria di pietra: il fuoco, l’oblio e la lezione del ‘cutulisciu’ di Giacomo Leone

La memoria di pietra: il fuoco, l'oblio e la lezione del ‘cutulisciu’ di Giacomo Leone

La città cambia volto, si trasforma. Crolla e risorge, si espande e si deprime. La città è un paesaggio in cui emergono fatti straordinari, luoghi misteriosi. Vicende inenarrabili di uomini e donne che si perdono nel tempo. Vie, piazze, campanili, palazzi, labirinti di pietra e di foglie.

La terra può tremare, il fuoco divampare, l’umanità può persino impazzire o peggio ancora, dimenticare, scordare, cancellare, nascondere, fino a rendere sottile il ricordo, fino ad appiattire la memoria. Poi una scintilla, un fuoco maledetto, un errore umano o divino. Il fuoco divampa e brucia la carne, riduce tutto in cenere nera, in polvere impalpabile alle dita. Brucia e brucia ancora, svuota la materia, vaporizza le forme, cancella le storie.

La memoria di pietra: il fuoco, l'oblio e la lezione del ‘cutulisciu’ di Giacomo LeoneGli uomini piangono, urlano, si dimenano. Improvvisamente ricordano e come un fulmine a ciel sereno riscoprono la storia e i suoi eroi. Il “cutulisciu” quella forma pura poggiata sulla terra, vicino al mare; quell’architettura che Giacomo Leone ha partorito come Zeus ha partorito Atena, non c’è più. Sparito, inghiottito dalle fiamme e dall’indifferenza. Come quegli attori usciti di scena, lontani dai palchi e dalla luce della ribalta, quel sasso, nero come lava, liscio come una scultura, leggero come una piuma, è tornato dentro la parlata di tutti. Che strano destino, bisogna morire – vale anche per l’architettura – prima di tornare protagonisti. Che strano. Oggi tutti ricordano Giacomo Leone, la sua architettura.

Meglio di niente, meglio della dimenticanza. Si, perché, l’opera di cui si parla tanto in questi giorni di lutto per l’architettura, non era ancora in nessuno elenco di cose buone da ricordare. Nel catalogo delle architetture contemporanee dal 1949 ad oggi, a cura del Ministero della Cultura, ancora non c’era. Ci sarebbe stata, vogliamo sperare, ma ancora non c’era.

Oggi in molti si interrogano sul futuro di quest’opera. Dove era e come era? Il solito ritornello. Credo che Giacomo Leone non avrebbe voluto restaurare una maceria, una rovina. La sua opera rappresenta uno dei segni più coraggiosi nell’architettura catanese, Giacomo Leone rappresenta il legame tra la tradizione di Francesco Fichera (Fabio Guarrera) e il futuro di una possibile scuola di architettura Etnea (mai formalizzata). Cutuliscio rappresenta quindi un segno identificativo di una città, la metafora che diventa forma abitata. Un segno urbano e architettonico che afferisce alla pratica della “mimesis” greca.

Irriverente, indisponente, era (lo sarà) lo skyline più intrigante della città, vista da mare e da terra, come un’immagine che ricorda Italo Calvino nelle sue “Le città invisibili”. Una poesia della forma, leggera, cava, abitata ma nello stesso tempo materica, adagiata a terra. Architettura gravida e ridondante.

La memoria di pietra: il fuoco, l'oblio e la lezione del ‘cutulisciu’ di Giacomo LeoneUn dramma quindi per la città, tutta. In tutte le sue componenti. Gli architetti sono più soli e orfani in questo momento. Lo sono perché colpevoli di non aver dato seguito a quelle spinte culturali che Giacomo Leone aveva tracciato. Colpevoli di aver sottovalutato la necessità di costruire un atlante delle opere di architettura contemporanea. Un atlante partecipato e condiviso e non frutto del caso. Ma sembra che Alessandro Amaro – presidente dell’Ordine degli Architetti PPC di Catania – si stia muovendo in questa direzione, per aggiustare, per rilanciare una nuova modalità di valorizzazione delle architetture del territorio. Restiamo in attesa dei dettagli.

Oggi non dobbiamo piangere solo la tragedia ma risollevarci con vigore. Non solo ricostruendo ma rigenerando culturalmente una disciplina, una professione, riscoprendo la sua curvatura etica, ideologica, artistica, sociale e tecnologica. Per fare questo serve ancora coraggio, lo stesso di Giacomo Leone.

Ripartire da una criticità per ridisegnare l’intera area, per trovare nuovi nessi tra la città e il mare. Per ridefinire un progetto che sia frutto di un concorso che stavolta registri le idee, senza pastrocchi burocratici. Un concorso che guardi non solo l’oggetto ma il suo contesto più ampio (Gaetano Manganello). Un progetto che risolva l’incongruenza della linea ferrata che è limite drammatico. Serve appunto un’architettura che sia ponte tra la terra e il mare. Forse un parco della musica e del teatro che accolga senza recinti la città, gli artisti, la gente, come Giacomo voleva.

Un progetto che arrivi fino al centro dello spazio urbano, che sia puntuale e lineare, che ricordi, evochi, quel cutuliscio che diventerà un racconto iconografico. Un monito, una sollecitazione, un suggerimento. Siamo tutti chiamati a dare risposte, al netto degli slogan di pancia. Melior de cinere surgo – Rinasco migliore dalle ceneri. La lezione di Giacomo Leone non è la forma ma il gesto. Non è il colore ma l’idea. Non è la materia ma l’organismo architettonico. Quante altre opere di architettura, sparse nella provincia catanese meritano le giuste attenzioni? Bruceranno? Crolleranno? Noi pensiamo che debbano esistere, nella città e nella memoria. Tutte. Non servono solo le risorse finanziarie, prima di tutto servono le idee. Gli architetti devono interrogarsi.

Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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