Duplice omicidio Rovetta–Vecchio, chiesto il rinvio a giudizio per Aldo Ercolano: udienza preliminare il 22 gennaio
Si aprirà il 22 gennaio davanti al gup Carla Valenti l’udienza preliminare per la richiesta di rinvio a giudizio di Aldo Ercolano, nipote dello storico boss mafioso Benedetto Santapaola, accusato di essere il mandante del duplice omicidio degli imprenditori Alessandro Rovetta e Francesco Vecchio. I due furono uccisi dalla mafia il 31 ottobre 1990 nello stabilimento delle Acciaierie Megara di Catania, per essersi rifiutati di cedere alle richieste di pizzo.
Ercolano, già ergastolano detenuto per associazione mafiosa e numerosi delitti – tra cui l’omicidio del giornalista Pippo Fava – è indicato dalla Procura come «l’ideatore e l’organizzatore» dell’agguato, in concorso con ignoti. Gli viene contestata la premeditazione e les aggravanti dei motivi abbietti e futili, volti a garantire il predominio nel territorio catanese e i vantaggi economici alla cosca, nonché ad assicurarsi i profitti dell’estorsione alle Acciaierie Megara, partita poi dal gennaio 1991.
La Procura generale – con i sostituti Nicolò Marino e Giovanna Scaminaci – ha chiesto il rinvio a giudizio anche per altri quattro imputati, accusati di estorsione aggravata dall’avere favorito Cosa Nostra, reato contestato pure ad Ercolano. Si tratta di Vincenzo Vinciullo, Antonio Alfio Motta, Francesco Tusa e Leonardo Greco. Secondo l’accusa, a ciascuno spetterebbe un ruolo preciso: Aldo Ercolano, assieme al padre defunto ‘Pippo’, sarebbe stato il mandante della tangente; Greco l’organizzatore; Tusa e Motta i riscossori; Vinciullo il negoziatore.
L’estorsione, secondo la ricostruzione, sarebbe stata commessa in concorso con esponenti di spicco di Cosa Nostra, tutti deceduti: Bernardo Provenzano, Pippo Ercolano, Nicolò Greco, Lucio Tusa e Luigi Ilardo. Il sistema delle intimidazioni includeva, oltre a telefonate minatorie, anche il posizionamento di proiettili sul sedile di un dirigente e nel giardino della moglie di Rovetta.
Secondo l’inchiesta, i vertici di Alfa Acciai di Brescia – indicati come parti offese – sarebbero stati costretti a versare, a più riprese a partire dal 1991, la somma di un miliardo di lire a famiglie mafiose di Catania, Caltanissetta e Palermo, per garantire la prosecuzione dell’attività senza subire attacchi.
