È tempo di semina, di trascendenza.
La terra si prepara ad accogliere il seme, a conservare la vita. La fine di ottobre, l’inizio di novembre, la natura diventa altare, ultima dimora, metafora della rigenerazione, è il tempo dei riti antichi. Le nostre tradizioni si intersecano con altre più lontane, si svuotano di significati, perdono il valore spirituale e diventano altro. Una metamorfosi profonda che fa emergere solo il carattere commerciale e consumistico. Una battaglia persa contro una tempesta senza fine, fatta di spot, tag, reel e post.
C’è una perenne sovrapposizione tra i riti, un rimbalzo di segni, di liturgie, di colori. Tutto ruota intorno ai morti, a quelli comuni, di tutti noi; a quelli dei santi. E proprio in questo, di segni fugaci, presi a prestito dalla tradizione che si insinua la superficialità, la logica del consumismo convulsivo. Tutto diventa iconico, fugace, impressionante. E si consumano lotte, contrapposizioni, rivendicazioni. Perdendo il senso profondo del momento: che ricorda il nostro antico patto con la terra, con gli avi, con il mistero divino. Quello che era uno dei momenti più topici del calendario agropastorale è diventato un carnevale senza patria. In ogni terra, i popoli, sembrano assomigliarsi inconsapevolmente.
Celebriamo, non tanto la morte, intesa come fine, come viaggio privo di orizzonte.
Al contrario, siamo impegnati a perpetuare l’inizio di una nuova vita, della speranza, del legame tra la terra e il cielo, tra la memoria e l’attualità, tra il passato e il futuro. Crediamo a una liturgia della vita che ha bisogno di morire per rinascere. L’umanità, nei secoli, ha rappresentato in tanti modi questo principio, mettendo al centro l’uomo, le sue radici e il mistero divino. La vita è continua metamorfosi, è ciclicità, è consapevolezza di vita eterna. Siamo un istante consapevole del mistero di Dio, tra due infiniti, passato e futuro. In questo istante, che apre le nostre menti, celebriamo la bellezza del cosmo e lo facciamo con le liturgie erediate dai nostri antenati.
Abbiamo trasmigrato alcune di queste liturgie, dai tempi antichi ad oggi; abbiamo cristianizzato la narrazione pagana, abbiamo riconvertito ogni segno, abbiamo dato un significato più profondo, avendo una matrice comune con tanti altri popoli. Abbiamo sacralizzato il tempo della semina, l’atto di affidamento del seme morto alla terra per consegnarlo ai nostri morti, per accudire e far crescere la vita. Nulla di macabro, nulla di orribile, nulla di terrificante. La narrazione di questo tempo, esalta la poesia dell’incontro con il nostro passato, mette radici, come un cipresso che svetta verso il cielo e verso il centro della terra. Siamo quella discendenza che vuole incontrare – per un istante – la nostra semenza. Attraverso un mistero, attraverso un regalo di giocattoli e dolci che vengono dall’aldilà. Una tenerezza infinita, che diventa corrispondenza di nomi – tra i nonni e i nipoti –che diventa ricordo e racconto in braccio a chi non c’è più, immersi in album sbiaditi di foto in bianco e nero.
È il tempo del mascheramento, della notte che incontra il giorno.
Dell’attesa, forse della consapevolezza di un mistero eterno. I morti tornano alla vita, la vita si addormenta dentro la morte per poi rinascere in primavera, per sempre. E questa celebrazione, questa liturgia si riconosce con alcuni attributi iconografici come i dolci, la convivialità, il cibo, la carnalità dei corpi, l’attesa nella notte, la preghiera, la luce, la spiritualità, il ricordo e la narrazione. Elementi ricorrenti, sempre uguali da secoli. Ibridati dalla cultura greco-romana, bizantina, spagnola. Riti di questa terra di Sicilia, che incontrano le tradizioni normanne e sveve, fino alle zucche dal colore del sole.
Incontrare non significa banalizzare, incontrare non significa annullare. L’incontro culturale tra le diversità può essere una ricchezza se capito, compreso, studiato. Il pericolo non è la zucca, ma la banalizzazione del momento. Il pericolo è la perdita di significato, lo svuotamento del gesto, la perdita della memoria, che diventa sterile ripetizione dei gesti, ormai privi di tutto. Il pericolo è l’ignoranza, l’inconsapevolezza, il disconoscimento. Un momento di intensa riflessione, sulla vita, sulla memoria, sul senso del divino è diventato uno spazio commerciale, uno spot aziendale, un costo ammissibile. I dolci erano un momento di transizione, la loro preparazione un’occasione per far incontrare i bambini con le nonne. I dolci erano preparazione, attesa, racconto. Erano il ritorno dalla campagna, il suono delle campane, il profumo dei forni. Erano le mani delle mamme, fatte di farina e miele. Erano i piccoli legni, trasformati dalle mani callose di padri in animali fantastici, per la gioia dei piccoli.
Il tema non è certamente la nostalgia, la malinconia.
Non è il desiderio di regredire verso un passato ormai passato. Non è il desiderio di antichità, ma la voglia di ripartire dal senso delle cose, di educare alla consapevolezza e non allo scontro tra opposte superficialità. Ritrovare le proprie origini significa ritrovare sé stessi. Rallentare e camminare. La festa dei morti è l’opportunità per riflettere e non scatenare una stupida guerra di religione (finta). Ogni continente ha la sua festa, le sue liturgie, avendo in comune il senso profondo del mistero della vita che muore e rinasce. Ma quando le feste diventano l’oggetto dell’interesse delle agenzie pubblicitarie il globalismo svuota ogni cosa.
D’altronde, siamo più attratti da una festa in maschera o da una riunione familiare? Dal racconto della vita dei nostri nonni o dalla musica pop? Dai gadget colorati, per tutte le età, nelle vetrine dei negozi o dai giocattoli vintage di plastica cinese? Dalle luci psicodeliche di una discoteca o dalle candele di una chiesa? Dai sapori dell’alcol alla frutta o dal vino novello che profuma di vigna? Fumo o incenso? La battaglia è praticamente persa, le forze in campo devastanti e poi noi abbiamo fretta, andiamo veloci, siamo adolescenti senza fine. Chi racconta ancora le favole ai bambini? Tra smartphone e tablet, non abbiamo il tempo di raccontare una storia.
Allora preferiamo ridurre tutto alla logica della tifoseria, alla fede senza consapevolezza: o sei con la Festa dei Morti o con Halloween. O sei con i dolci della nonna o con i dolci della zucca. O sei con i santi o con satana? Viene da ridere. Perché l’origine di queste feste è identica, la matrice uguale, tutto riporta alla terra. Al monachesimo francese, al calendario agropastorale. Cambiano i colori, rimane il rapporto di corrispondenza tra cibo, sesso, morti, terra, seme, paura, mistero. Forse la vera differenza è tra consapevolezza e inconsapevolezza, tra spiritualità e superficialità, tra intimità e platealità. Tra familiare e commerciale. Le cose cambiano, persino le nostre tradizioni, quelle a cui crediamo, che sentiamo nostre da sempre, sono il risultato di altre ibridazioni culturali, di innesti tra antico e modernità (di tanto tempo fa). Non esiste una razza pura, non esiste una cultura pura, siamo incontro, contaminazione, ibridazione, trasformazione. Come le chiese nel mondo. Chi rimane fermo, fisso, immobile è morto. Chi non coglie il valore del cambiamento è destinato a sparire. Ma non significa annullarsi, o peggio ancora perdersi in derive culturali. Dobbiamo coltivare la conoscenza, la consapevolezza, il mistero. Spesso, i più furbi, approfittano dei nostri pregiudizi e delle nostre superstizioni per farsi gioco di noi. Ci trascinano nell’ossessività del male, nell’abisso dell’intolleranza, nell’oscurità dell’ignoranza. Allora noi studiamo, questa è forse la vera rivoluzione. E ricordiamo i nostri cari, le loro storie, il loro tempo. Ricordiamo che si rinasce sempre e che la terra è nostra madre.
Che sia la festa dei santi, dei nostri avi, con l’augurio di poter avere un buon raccolto, non solo di grano. Questo è il tempo della semina, per i nostri progetti futuri consapevoli che non siamo soli. E che nulla possiamo fare da soli. Rallentiamo la corsa, per un attimo e ricominciamo a raccontare le antiche storie ai bambini. Hanno bisogno di risentire le favole di un tempo.
