Crollano i centri storici: recuperare o demolire? Sono pochi i manufatti che meritano di essere salvati

Un boato, un rumore assordante nella notte. Macerie, rovine, un groviglio di travi e mattoni. La terra trema, scuote le case, le frusta e dopo tutto sprofonda. Una nube di polvere amara come nebbia all’inferno. A Catania, l’ultima di queste scene apocalittiche. Lavori a venti metri di profondità – la tanto desiderata metropolitana – alcuni giorni di avvisaglie tra gli abitanti, la denuncia, la paura, i soccorsi. Per fortuna nessuno muore, nessuno perde la vita ma in molti hanno paura, più paura di prima, si sentono meno sicuri, più vulnerabili.
Cosa è successo? Si poteva evitare? È il destino dei nostri centri storici, sempre più degradati? Immediatamente si registrano le prime dichiarazioni, autorevoli, specialistiche ma ormai vuote di significato, perché urlate invano da troppo tempo e mai ascoltate veramente. Il Comune di Catania, l’impresa costruttrice, l’ente appaltatore, gli ordini professionali, il sindacalista, l’ambientalista, lo storico, la gente per strada, le TV, i giornali, i social; tutti a scansare le responsabilità, tutti a cercare il colpevole, tutti a proporre soluzioni, molti a descrivere scenari complottistici e poi l’ombra del grande terremoto che tutti aspettiamo ormai da secoli, che darebbe il colpo di grazia a quella città che si scioglie piano piano sotto i nostri occhi. Possiamo sottoscrivere tutto, perché la verità sta nelle verità.

Ma proviamo a guardarla da un diverso punto di vista. Proviamo a dire senza pudore come stanno veramente le cose. Proviamo a farlo senza retorica e senza la paura, di essere subito additati come macellai o, peggio ancora, insensibili al fascino della memoria, al culto della conservazione. Partirei dall’assunto del filosofo Massimo Cacciari, in questo caso è assai utile: «Conservare tutto, significa non conservare nulla».
Noi abbiamo un serio problema con la modernità, siamo terrorizzati dal contemporaneo, ci aggrappiamo alla storia più per paura che per scelta. Siamo ossessionati dal dover conservare ogni traccia, ogni pietra, ma spesso è l’incapacità di offrire soluzioni alternative che ci guida verso uno storicismo esasperante.

Analizziamo i fatti. Le nostre città sono inadeguate. La parte storica è fragile (in parte) e quella che siamo riusciti a costruire dal dopoguerra in poi è persino peggio. Inutile girarci attorno. La storia della nostra terra insegna che l’area sud-orientale – tra eruzioni e terremoti – è una delle più pericolose della Sicilia, sin dall’antichità. Cosa fare? Individuare i pochi manufatti che meritano di passare alla storia: pochi e non tutti. Individuare il tessuto urbano che merita di essere conservato: come traccia, come segno, come spazio. Il resto via. Pensare ad una città moderna, verticale, innovativa, smart. Ma per fare questo ci vogliono
progetti di grande respiro, di ampie vedute, che riescano a riproporre, non solo le qualità iconiche del passato – ripulite dagli storicismi – ma un quadro di relazioni, di significati, che sono la vera lezione di architettura che ci proviene dalla storia. Orientamento, giacitura, organizzazione, gerarchia, materia, luce, teologia, astronomia, antropologia. Si deve ripartire da questo possibile paradigma. Per farlo, non serve la legge sugli incarichi (almeno come è concepita ormai da anni), non serve imparzialità, oggettività, distacco; serve scegliere, serve saper scegliere, e spesso, non sapendo scegliere, ci affidiamo alle norme che non hanno l’anima. Abbiamo inventato marchingegni normativi per semplificare e oggettivare; il risultato è sotto gli occhi di tutti. Tentiamo di porre rimedio alle anomalie del sistema degli appalti e siamo sistematicamente incastrati in scelte surreali, brutte, ma coerenti alla legge. C’è da chiedersi come è possibile che i più grandi capolavori dell’architettura e della città – nella storia – sono stati fatti senza il codice degli appalti, senza le Soprintendenze, senza il Genio Civile, senza l’Anticorruzione. Ovviamente è una provocazione ma inviterei a riflettere.

Altra questione sono le risorse. Ma chi dovrebbe recuperare le abitazioni del centro storico (limitiamoci a questo in questa sede)? Gli attuali abitanti? Con quali fondi? Un, due e tre, e la via Plebiscito a Catania viene rigenerata, recuperando il patrimonio storico? Facile in un corso di architettura e ingegneria. Difficile nella realtà. E se avessimo le risorse economiche, si porrebbe la questione normativa. In Italia, ci siamo inventati – ogni tre, quattro anni – una legge sulla semplificazione edilizia. Ormai quando si sente la parola “semplificazione” ci sono tecnici che assumono le sembianze dell’Urlo di Munch. Ad ogni semplificazione normativa, si moltiplicano gli adempimenti burocratici.

Ma ora viene il bello. Il mercato immobiliare. Si perché queste case da recuperare con importanti investimenti finanziari (procedure, materiali, ecc.), hanno un costo fondiario insostenibile, sostenuto, in parte dalle agenzie immobiliari e in parte dai proprietari, che ritengono di possedere tutti Buckingham Palace, appena restaurato. Se verifichiamo il mercato immobiliare catanese, per esempio, in centro storico, scopriamo che le transazioni sono amplificate rispetto al reale valore dei beni che, nella maggior parte dei casi, non sono adeguati, sul piano igienico sanitario e strutturale. Si vende di tutto a prezzi troppo alti, (anche se qualcuno ci illude del contrario) anche immobili pronti per il crollo annunciato. Si perché un edificio, crolla per colpa di un’opera, che si realizza a ben venti metri di profondità. Mah. Può essere. Forse ci sono vuoti archeologici? Forse l’edificio è già stato compromesso da precedenti interventi di svuotamento e sopraelevazione? Forse a piano terra qualcuno ha eliminato un muro portante? Vedremo.
Se il valore degli immobili scendesse davvero, se le procedure autorizzative fossero più semplici davvero, se l’intera filiera fosse calmierata e incentivata davvero (abbassando le aliquote catastali per esempio), se i progetti architettonici fossero di vera qualità (e qui è più complicato); forse avremmo città più sicure, minor utilizzo del suolo, più verde e più felicità. Forse. Ma si dovrebbe tentare.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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