
Si è inaugurata nelle sere del 9 e 10 maggio la sessantesima edizione di rappresentazioni classiche dell’Inda di Siracusa. Quest’anno la scelta della direzione artistica è caduta su due testi di Sofocle: Elettra ed Edipo a Colono. In entrambi i casi la risposta del pubblico è stata di gradimento e di significativo apprezzamento. La direzione voluta per i due allestimenti è stata quella del massimo rispetto del testo in traduzioni e riletture di drammatizzazione che hanno consentito allo spettatore di godere del valore assoluto del messaggio di Sofocle, delle sue riflessioni profonde sulla natura umana. Nessuna stravaganza nella messa in scena, nessun narcisismo, ma originalità nell’impostazione e corretto rapporto col testo.
Nella prima serata è andata in scena Elettra, con la regia di Roberto Andò -al suo debutto al Teatro greco di Siracusa- e la traduzione Giorgio Ieranò. Nel cast: Elettra:Sonia Bergamasco; Oreste: Roberto Latini; Clitemnestra: Anna Bonaiuto; Crisotemi:Silvia Ajelli; Egisto: Roberto Trifirò; Pilade: Rosario Tedesco; Pedagogo: Danilo Nigrelli; Capo coro: Simonetta Cartia; Corifee: Paola De Crescenzo, Giada Lorusso, Bruna Rossi; Coro delle donne di Micene: Allieve dell’Accademia dell’INDA. Scenografia di Gianni Carluccio, musiche composte da Giovanni Sollima, costumi di Daniela Cernigliaro, movimenti scenici a cura di Luna Cenere.
Svolgendo lo stesso tema delle Coefore di Eschilo, più tardi trattato anche da Euripide, questa è la tragedia di Sofocle che meglio si presta ai confronti, sia tecnici che tematici.
Se nel dramma di Eschilo Elettra non dialoga mai con la madre, Clitemnestra, qui le due donne si scontrano ferocemente in un dialogo aspro dove Elettra accusa la madre per il delitto compiuto sul suo padre adorato e per lo spregiudicato matrimonio con Egisto e la regina si difende ricordando il terribile misfatto di Agamennone che le aveva sacrificato la figlia Ifigenia. Il dramma di Sofocle appare sfocato rispetto alla struttura tragica, come tendente alla diatriba sofistica, ma attento al tema della decadenza e della rovina. E su questo aspetto si è soffermato particolarmente Roberto Andò nell’impostazione generale della sua regia. A cominciare dalla scenografia a cura di Gianni Carluccio: il palazzo di Micene è rappresentato come una “natura morta”, una facciata adagiata sul piano orizzontale, come uno uno spazio simbolico che riflette la solitudine radicale di Elettra e il senso generale della rovina, sulla sinistra un letto di ferro cadente, sulla destra un pianoforte a coda, impolverato. Su questo spazio si muove la protagonista di un dramma quasi tutto al femminile ed è in scena dalla fine del prologo al compimento della vendetta; l’azione si svolge intorno a continui contrasti fra la fanciulla orfana del padre e i personaggi che la circondano in una spirale di situazioni che porteranno verso la vendetta meditata.
Davvero complesso sostenere il peso di un ruolo così centrale e decisivo, donna schiacciata dal dolore, disperata nella solitudine, piena di nostalgia per il padre e per la reggia nella quale adesso è schiava, ma spietata nel suo proposito, femminile in certi moti d’odio, virile nella smania di agire, eroica e patetica.
Sonia Bergamasco ha retto questo peso offrendo tutta se stessa al personaggio. Ha plasmato la sua fisicità esile e spigolosa, spogliata di ogni orpello (compare in scena con pochi stracci addosso), scalza e lacerata nella pelle e nell’anima, selvaggia nella sua moralità contraria alla civiltà che la circonda. La sua dolente storia è letteralmente incarnata come se il corpo dell’attrice fosse stato consumato dall’interno; si accascia, si inginocchia, e si accoccola in posizione fetale, come a voler recuperare un tempo perduto, di sicurezza ed amore. Potente, invece, la sua voce, timbrata e capace di passare dal flebile lamento all’urlo di rabbia e poi di gioia. La disperazione è palpabile, ma sempre lucida; la vendetta, che incombe come destino, viene espressa più come necessità etica che come cieca furia e la Bergamasco alterna la rappresentazione di una fanciulla indifesa con quella di una donna determinata fino all’ostinazione e capace di ordire un duplice delitto.
Suona il pianoforte, quasi a sottolineare alcuni passaggi, come se i tasti rappresentassero le lacrime versate, soprattutto sul finale con poche luci tutte su di lei e sulla melodia della dello strumento.
Nei dialoghi che si succedono, con Crisotemi (una delicata Silvia Ajelli), con con Oreste, con Clitemnestra e con il coro, Elettra raggiunge maturità e rafforza i suoi propositi. In questa edizione abbiamo assistito a un crescendo di interpretazione e intensità, in modo particolare nella scena del conflitto con la madre, Clitemnestra interpretata da Anna Bonaiuto, che è una regina austera. Appare in scena con un lungo abito nero e i capelli bianchi raccolti in una treccia, non accetta le accuse rivolte dalla figlia, ma si difende ricordandole di avere ucciso perché “accanto a me c’era la Δική, la giustizia”, più che madre si mostra padrona.
Elettra è la sorella che aspetta Oreste, il fratello amato che deve compiere la vendetta, lo ricorda, lo rimpiange, non vuole credere alla notizia della sua morte, lo ritrova con immensa gioia e lo abbraccia, suscitando la commozione dello spettatore. Risponde a questo abbraccio, dopo il riconoscimento, il fratello interpretato da Roberto Latini che ha dato al personaggio lo spessore di chi risolve il dubbio (più caro ad Eschilo) e si assume il dovere di compiere l’atto crudele che solo lui, uomo, può portare fino in fondo. Uccidere chi ha ucciso e chi ha tradito. Con le mani insanguinate esce dalla reggia a dimostrare l’azione cruenta che non si doveva mai vedere in scena nel teatro greco.
Le azioni più dense di significato, come la narrazione del Pedagogo ( un intenso Danilo Nigrelli) sulla morte di Oreste, sono sottolineate dal suono del violoncello (eseguito da musicisti sullo spartito di Giovanni Sollima) che si concretizzano come in un commento non verbale ma felpato e lento, la cui decodifica fa pensare al senso di inesorabilità del fato, topos della riflessione sofoclea. Con la stessa lentezza appaiono i movimenti del coro che sembra oscillare nell’accompagnare le argomentazioni di Elettra.
L’ultimo personaggio ad entrare in scena è Egisto al quale (forse per scelte di regia, forse per personale inclinazione) Roberto Trifirò ha dato una sfumatura piuttosto marcata di eroe blasé, in parte distaccato, tendente al macchiettistico.
Siamo grati ad Andò per tutta l’intera impostazione, agli attori tutti, comprese le allieve dell’Accademia dell’INDA, che hanno sostenuto il rigore di un classico nella sua purezza, contando anche su un’opera di traduzione, a cura di Giorgio Ieranò, lineare e moderna ma puntuale e capace di sottolineare l’universalità della tragedia.
Una nota in calce: l’INDA ha offerto un servizio che non dovrebbe stupire se fossimo abituati a reali forme di inclusione, ma poiché così non è, vedere degli specialisti nella LIS illustrare la tragedia col linguaggio dei segni a spettatori non udenti ci ha piacevolmente sorpreso.
L’altro testo tragico, è Edipo a Colono, con la regia di Robert Carsen. Cast: Edipo: Giuseppe Sartori, Antigone: Fotinì Peluso, Ismene: Roberta Caronia, Teseo: Massimo Nicolini, Creonte: Sergio Mancinelli, Polinice: Danilo Nigrelli, Messaggero: Giacinto Palmarini, Coro: Allievi dell’Accademia dell’INDA. Traduzione di Francesco Morosi,musiche originali di Cosmin Nicolae, scenografia di Radu Boruzescu, i costumi diLuis F. Carvalho, movimenti scenici di Marco Berriel.
Dopo l’Edipo re del 2022, il regista Robert Carsen, ha ritrovato il re di Tebe, che torna, dopo anni di peregrinazione con la figlia Antigone, ad Atene, nella località di Colono, nel bosco delle Eumenidi, lì dove lo ha collocato Sofocle col suo ultimo dramma (rappresentato postumo nel 401). Come nel 2022, così adesso Carsen con questa tragedia, molto diversa dall’assoluta perfezione dell’Edipo re, più intimistica e meno potente, ha rinunciato ad ogni forma di spettacolarizzazione, riducendo e sottraendo ogni possibile elemento superfluo. Ha volutamente recuperato la drammaturgia lineare, della prima regia, sia nel senso di una forma geometrica, sia nella scenografia, che nell’impostazione plastica dei personaggi che si muovono e recitano con un ritmo reso quasi visibile, e definisce quasi fisica la parola così purificata e nitida. La scena che rappresentava allora una scalinata bianca è adesso una scalinata verde, ancora una volta riflesso speculare della cavea del teatro greco.
Una sequenza di cipressi sui gradoni rimanda all’idea del bosco sacro evidenziando l’aspetto metafisico nella verticalità che collega terra e cielo, mondo degli uomini e trascendenza divina. Da questi e in mezzo a questi scendono le Eumenidi in peplo verde, quasi in mimesi con l’elemento vegetale, mentre Edipo, cieco e claudicante scende, tra il pubblico, sorretto dalla figlia che gli è stata accanto ed entra in scena recuperando esattamente lo strepitoso finale dell’edizione ‘22, quando lo stesso Giuseppe Sartori, nudo e sanguinante, dopo essersi accecato, saliva in mezzo al pubblico della cavea seguito da un fascio di luce nel buio.
Adesso Sartori, appositamente invecchiato, ma con identica presenza scenica imponente, riscende quella cavea e si domanda che luogo sia quello dove è giunto e si prepara a vivere i suoi ultimi giorni, con dignità.
L’eroe, ormai ridotto a larva di se stesso, libera la sua coscienza da ogni senso di colpa, arriva alla conclusione della sua innocenza, considera che la sua sorte è stata piuttosto patita che agita. Fa i conti con la stessa Antigone che l’accompagna, con Ismene che li raggiunge e li riconosce, si scontra terribilmente con Polinice, fino a maledirlo, e poi con Creonte che vuole ricondurlo a Tebe e rapisce le due sorelle nell’intento di convincere il re cieco, ma l’intervento di Teseo salva le ragazze e il vecchio padre.
Fotinì Peluso, si è cimentata nel ruolo tragico dando prova di aver assimilato la tecnica, rendendo Antigone una donna intensa e compassionevole, anche se rimane ancora acerba nella vocalità; Roberta Caronia nei panni di Ismene ha timbro di voce e compostezza, mentre Massimo Nicolini ha portato in scena un Teseo affascinante, saggio e protettivo.
Nell’Edipo a Colono Sofocle non si allontana dal suo pessimismo invincibile, anzi qui tocca punte estreme nel canto del coro delle donne (magnifiche le allieve dell’Accademia), sulla vita rifiutata. Un elenco cupo di morbi, invidia, rivolte, liti, battaglie e sangue e, poi, la vecchiaia ingrata, affollata dimora di mali per cui “non nascere è il destino migliore”. Tuttavia la tragedia è anche un grande canto di pietas che Carsen ha saputo esaltare. Per esempio la preghiera di Edipo alle Eumenidi, qui particolarmente toccante, è rispettosa, confidente e solenne. Ancora una volta la chiave di lettura dell’intera messa in scena è giocata sull’immagine simbolica, metafisica. Carsen tratta la scena come fosse una tela dove dipinge con pennellate corpose un affresco raffinato ed allegorico con una netta contrapposizione tra bianco e nero e il verde della natura che è asilo e conforto. In un colpo d’occhio esaltato dalle luci, e dal semplice suono della parola distillata di Sofocle (nella traduzione di Francesco Morosi), l’immaginario risvegliato nella mente dello spettatore va da alcuni quadri di Magritte (come nel primo Edipo) a scene di film cult come Il doppio sigillo di Bergman.
La morte di Edipo è, in realtà, una metamorfosi. Carsen stesso afferma: “ E’ come se assistessimo alla metamorfosi di un uomo che si sta liberando dagli obblighi politici e sociali, dalle necessità e dalle ambizioni, per diventare un tutt’uno con la natura e ciò che lo circonda”. Così Edipo sale attraverso le scale verso il suo destino di morte come era salito da giovane, cieco su per la cavea, specularmente.
Con altra natura, in un passaggio surreale, l’eroe sublimato entra nel flusso della vegetazione. Sartori indossa il peplo verde come le Eumenidi, ha le stesse movenze delle donne del coro e abbraccia la terra sacra di cui adesso fa parte.
Sembra, così, chiaro che il dramma postumo di grande bellezza sia stato il testamento più alto di Sofocle.
Inevitabilmente la prossima pagina di questa trilogia del ciclo tebano sarà Antigone che Carsen dirigerà il prossimo anno.
Elettra rimarrà in scena fino al 6 giugno, Edipo a Colono fino al 28.