
Tramonto sull’Occidente: tra Mario Savio, Spengler e i fantasmi del perbenismo moderno
Sono tranquillamente seduto sulla poltroncina del mio terrazzo in campagna, a godermi il tramonto del sole che lentamente scivola via da est verso ovest, quando improvvisamente, su un numero di una vecchia rivista risalente a epoca remota, ritrovo la fotografia di uno studente dell’Università di Berkeley di nome Mario Savio che proprio in quell’Ateneo tenne un memorabile discorso.
Chi, oggi, ricorderebbe il volto sconosciuto di quello studente di Berkeley (padre originario di Santa Caterina Villarmosa, provincia di Caltanissetta) che nel 1968 accese la miccia di una rivolta destinata a cambiare l’Occidente? Pochi, temo, eppure bastò uno slogan gridato in un campus della California per far traballare tradizioni, cultura e certezze secolari, inaugurando un’epoca in cui tutto poteva essere rimesso in discussione.
Al di là della condivisione o meno di quelle idee incendiarie, degli eccessi verbali e degli scontri fisici che nel corso degli anni successivi letteralmente invasero e pervasero la cultura occidentale, la scuola e le università, il lavoro, i rapporti tra nuove e vecchie generazioni, tra genitori e figli, bisognava prendere atto che la società occidentale era cambiata.
Erano cambiati i valori in cui tutte le precedenti generazioni avevano creduto: si modificavano i concetti di famiglia, di rapporti sociali, di autorità, di studenti e professori, e perfino la Chiesa post-conciliare dovette prendere atto che la nostra società abbandonava il vecchio per un nuovo ancora incerto, scegliendo se rimanere monolitica o adeguarsi all’inevitabile cambiamento promosso da una nuova generazione ribelle e indomita.
Per oltre cinquant’anni, da quel discorso tenuto da uno sconosciuto studente di Berkeley, abbiamo creduto, anzi eravamo certi, che – pur tra tanti errori, critiche e aggiustamenti in corso d’opera – non si potesse più tornare indietro.
La società occidentale era quella che aveva abbandonato i vecchi valori formalistici (niente più obbligo di giacca e cravatta la domenica in Chiesa e a pranzo dai suoceri) a favore di rapporti più autentici, più sinceri e improntati alla massima libertà di pensiero e di espressione.
Avevamo creduto che quelle classi sociali cresciute nel perbenismo dei modi ma nell’ipocrisia dei rapporti umani si fossero ormai estinte. Ma non era così. Sotto la cenere apparentemente spenta covava ancora il fuoco della rivalsa, della rabbia e forse della vendetta.
Generazioni che non si erano riconosciute nella rivoluzione culturale erano rimaste chiuse in un silenzio assordante, temendo di essere riconosciute ed emarginate. Oggi, quella “specie in via di estinzione” è tornata maggioranza, non più silenziosa ma rumorosa e desiderosa di rivendicare il perduto amore per il formalismo e il perbenismo. È solo una mia impressione, o si vedono in giro più giacche e cravatte?
Il ritorno del perbenismo (ma non è lo stesso)
Siamo sicuri che questa nuova generazione di perbenisti sia uguale a quella dei nostri genitori o nonni? Temo di no. Quella generazione era formalista ma non rabbiosa. Aveva conosciuto la guerra, la fame, e non cercava nemici: al massimo, cercava svago in un varietà del sabato sera, in bianco e nero.
E oggi? I nemici sono ovunque e in nessun luogo: ci sono i social, c’è internet, c’è il tweet che ribalta un giudizio in 24 ore. La pubblica opinione non è più un coro, ma un DJ che mixa ansie, esaltazioni e paure e preme “play” in attesa della prossima hit virale.
Viviamo nell’era della volatilità emotiva. Medici, magistrati, politici: un giorno santi, l’indomani carnefici. Un click trasforma il ruolo. Eroi e peccatori si scambiano con la leggerezza con cui si cambia canale.
A chi cerca ancora i nemici, consiglio di leggere “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati, dove il capitano Drogo attende per tutta la vita un nemico che non arriverà mai.
Un cristianesimo da vetrina
Nel frattempo, si afferma un nuovo perbenismo borghese e devoto, ben distinto da quello del dopoguerra. Ogni domenica la fila verso la chiesa, il segno di croce, la parabola del buon samaritano… ma dietro l’apparenza, si cela una speranza segreta: che gli “ultimi” restino lontani, dietro un confine sociale invalicabile.
È quel cristianesimo di facciata che Papa Francesco ha provato a smascherare, domandando a Lampedusa: “Dov’è tuo fratello?”. Una religiosità utile a lavarsi la coscienza, non a salvare il prossimo.
Occidente in crisi o in confusione?
Così appare oggi l’Occidente: inquieto, rivoltoso, ma senza direzione. Alterna rivoluzioni lampo a restaurazioni fulminee. Cambia bandiera con il vento. È un teatro dove tutti i ruoli sono intercambiabili e le narrazioni si dissolvono in meme.
Stiamo forse assistendo a quello che Oswald Spengler definì “Il tramonto dell’Occidente”? Non per colpa del male, ma per la perdita di memoria e passione verso il bene comune. Quando lessi quel libro da ragazzo, pensavo che il tramonto sarebbe arrivato con la guerra. Invece è arrivato con internet, social e fake news.
Oggi improbabili statisti, fattucchiere digitali e influencer ci spiegano cos’è un virus e come curarlo con rituali magici. Non più con la scienza, ma con le stories. Non più con il sapere, ma con la superstizione di massa.
In attesa dell’alba
Forse non c’è risposta. Forse siamo solo nel bel mezzo di una lunga recita, in cui il sipario si apre e si chiude senza mai davvero cambiare lo spettacolo.
Ma una certezza rimane: dalla mia poltroncina in campagna, mentre il sole tramonta, so che – se avrò pazienza – da qualche parte ci sarà un’altra alba ad aspettarmi.
Ottimo articolo