L’ospedale Santa Marta a Catania, nel quartiere Antico Corso, in via Gesualdo Clementi è morto.
Era una struttura ospedaliera che occupava un’area strategica lungo l’asse viario est-ovest che collegava il mare all’acropoli. Eradiventato un vuoto urbano, adesso è una piazza (non un parco), uno spazio pubblico che aspira a diventare luogo di relazioni e di rappresentazione.
Abbiamo seguito qualche anno fa – come Corriere Etneo – le vicende relative al progetto, ascoltando alcuni protagonisti come Fabio Guarrera, Aurelio Cantone, Maurizio Erbicella e lo stesso progettista Giuseppe Scannella. Ci siamo fatti un’idea ma dopo infinite e ingarbugliate discussioni, il progetto è diventato cantiere e oggi questo spazio è stato consegnato alla collettività. Ricominciano le discussioni, le critiche, le polemiche e le opposizioni. Giuste? Sbagliate? Vi proponiamo alcuni spunti di riflessione per tentare di capire se stiamo guardando nella direzione giusta.
Lo sguardo, quello del narratore, è il nostro punto di partenza.
In questi giorni chi ha “voluto” enfatizzare le incongruenze del progetto o se volete della sua realizzazione, ha proposto fotogrammi della piazza molto depressivi, che hanno orientato il pubblico dei social e degli addetti ai lavori verso critiche spietate. Noi, invece, abbiamo deciso di fotografare lo spazio diversamente – senza strumenti professionali, quindi con uno smartphone – a partire da quelle visioni prospettiche che, secondo noi, permettevano una migliore lettura delle gerarchie, dei punti di fuga, delle relazioni urbane, enfatizzando la connessione tra la piazza e il tessuto storico. Il risultato è visibile a tutti, sembra quasi un’altra piazza, un attore di questa vicenda ci ha persino confessato che ha la tentazione di rivalutare il lavoro svolto. Lo sguardo è determinante e quindi la narrazione della città dipende dall’osservatore, che agisce secondo la propria cultura che tiene conto di tanti fattori non sempre omologabili. Non siamo più abituati a leggere gli spazi, accettandone le trasformazioni che la storia ha sempre proposto anche in dissonanza alla tradizione.
Altra questione è il rapporto tra la committenza (chi è?) e il tema che vuole sviluppare (cosa desidera?). Spesso questa relazione, per tanti motivi anche giustificabili, genera equivoci. Stessa criticità per il rapporto tra la comunità che fruisce del bene (disomogenea) e il progetto, spesso alterato da ideologie e metodologie non condivise da entrambi gli attori. Ma ci sono leggi e procedure che vanno rispettate, rimane sempre valido il principio che il progettista è un professionista specializzato a fornire prestazioni richieste mentre la collettività incide sulle scelte nel rispetto delle normative vigenti. In questa storia, i tempi stretti e le necessità operative hanno costretto a utilizzare una procedura più snella, escludendo la possibilità di usare la pratica del concorso d’idee come strumento partecipativo.
Ma demolire era una priorità, realizzare una piazza una necessità, elaborare un progetto con poche risorse economiche e in poco tempo un vincolo invalicabile e in questo contesto, il progettista e il committente, devono trovare le giuste mediazioni, ascoltando gli attori istituzionali e il sentimento sussurrato dalla gente. Il risultato è certamente un compromesso e chi, come progettista e committente non ne conosce i rischi e la frequenza nell’esperienza di tutti i giorni? Chi non ha vissuto questa storia almeno una volta nella vita scagli la prima fake sui social.
Sappiamo tutti, che non esiste un progetto che non subisca modifiche in corso d’opera e forse questo ci obbliga a pensare che progettista e direttore dei lavori dovrebbero coincidere sempre. Dove non succede, le criticità aumentano e il risultato finale è spesso contradditorio. È nella natura delle cose. In questo senso la norma di riferimento andrebbe aggiustata.
Ma chi è la committenza? Come definisce il tema progettuale? In quale modo sente la città? E chi è la comunità e come si esprime democraticamente? Sono domande a cui spesso non rispondiamo e quando lo facciamo è tropo tardi. Molte normative si esprimono chiaramente in questa direzione ma spesso facciamo finta di non sapere perché “orientati” per le ragioni più varie: appartenenze politiche, accademiche, sociali, imprenditoriali e mediatiche. Non facciamo finta di non saperlo.
Ma alcune cose vanno dette. Per esempio, che prima viene il progetto e poi l’individuazione delle risorse finanziarie e non viceversa. Che definire il tema, nel progetto di trasformazione dello spazio, è centrale e spesso diventa marginale.Che i concorsi d’idee sono la strada giusta quando è possibile. Alessandro Amaro, Presidente dell’Ordine degli Architetti PPC di Catania, sentito per l’occasione, si esprime coerentemente ai principi di cui sopra.
Ma dobbiamo ancora dire che la città è un palinsesto di episodi che dialogano in rete, nel tempo e nello spazio, coerenti e incoerenti, modellate dagli uomini che li abitano, trasformandoli secondo le necessità. La città cambia e dobbiamo accettarlo, governandola. E poi bisogna avere pazienza. I luoghi hanno bisogno di crescere e di maturare. Di essere vissuti, attraverso adattamenti metabolici. I sociologi ne sanno qualcosa. La gente adatta, modella, riconfigura sempre. Iluoghi sono sempre predisposti al cambiamento, al completamento, alla metamorfosi. Da corpi estranei, nel tempo,diventano luoghi della città. I ragazzi ci giocano, le donne li attraversano, i tavolini li occupano. Ma la piazza non è un’opera museale, una scultura, un dipinto. La piazza è un luogo che deve stimolare anche la sua possibile trasformazione. Deve essere permeabile, suggerire visuali, accogliere la gente, ombreggiare e proteggere, evocare la natura, proporre suoni, scandire lo spazio e stimolare il dibattito. Abbiamo sentito anche Gaetano Laudani, direttore del Genio Civile di Catania e il suo staff e anche tenendo conto delle tante difficoltà emerse durante l’intero iter, sono soddisfatti del risultato ottenuto, avendone curato la realizzazione.
Se c’è qualcosa ancora da approfondire è certamente il sottosuolo – come suggerisce lo stesso Daniele Malfitana. La dimensione archeologica è quella che meriterebbe più risorse e attenzioni. Siamo sull’acropoli dell’antica Catania. Forse dobbiamo aggiungere punti smart, dare spazio agli artisti, ai musicisti. Forse deve essere ancora abitata dalle istituzioni, organizzando eventi per il quartiere. Le piazze non vivono senza le giuste attenzioni. Sono alberi che hanno bisogno di essere coltivate e curate. Forse le associazioni di quartiere devono organizzare eventi musicali, proiezioni di film, anche quelle piccole sagre dai colori accesi che sanno di festa di paese.
Il dibattito sulla qualità dell’architettura e della città andrebbe spostato verso la creazione di un urban center, di uno spazio aperto, perennemente aperto al confronto, dove i temi, le strategie e le soluzioni sono la mediazione tra la politica, la classe dirigente pubblica, gli imprenditori e gli attori della pianificazione e progettazione: architetti, ingegneri ecc. e prima di tutto la gente.
Ma rimane un dubbio, lo sguardo e l’osservatore – portatore di conoscenza – determina la bellezza dei luoghi? Non è forse questo il compito del progettista? Le foto che proponiamo restituiscono dignità a questo spazio osteggiato sin dall’inizio e diventato il terreno di scontro tra partigiani contrapposti (la gente del quartiere sta già vivendo la piazza serenamente). Su questo non ci sono dubbi e aggiungerei che la rappresentazione del progetto e la sua comunicazione incide fortemente nella percezione degli interlocutori.
Sulla questione che bisognava riproporre una nuova cortina, come ad evocare il volume ormai morto, forse, riguardando meglio, la soluzione finale non è proprio male. Quale sarà il tema di progetto per i prossimi anni in quell’area comprese le sue adiacenze urbane? Se ci guardiamo intorno c’è tanto di cui discutere. Nel frattempo,aspettiamo che gli alberi crescano per fotografare ancora una volta questa piazza, per trovare nuove visuali e nuovi luoghi.
Non ci rimane che sperare nell’intervento di altri attori di questa vicenda e il Corriere Etneo è disponibile ad accogliere le diverse istanze, lontani dai furori sterili dei social. A voi la parola.
