Il 6 settembre, al Palazzo Cutore di Aci Bonaccorsi, debutta “L’oro di San Berillo”, spettacolo teatrale diretto da Gisella Calì e tratto dall’omonima opera dello scrittore catanese Domenico Trischitta. Il testo riporta alla luce uno dei momenti più controversi della storia urbana di Catania: la “deportazione” degli abitanti dello storico quartiere San Berillo, avvenuta negli anni ’50 con l’obiettivo di “riqualificare” la zona, che in realtà nascondeva interessi speculativi e provocò lo sradicamento di centinaia di famiglie, gettando nell’emarginazione un’intera comunità.
Gisella Calì, regista e scenografa, è nota per il suo teatro visivo e di impegno civile. Con una lunga esperienza nel teatro contemporaneo e nella didattica, porta in scena storie dense di memoria e identità, intrecciando parola, immagine e spazio scenico.
TRISCHITTA: “DEVO A BAUDO IL MIO LAVORO”
Se ho scritto “L’Oro di San Berillo” lo devo a Baudo. Lesse i racconti di mio padre e rimase folgorato e mi disse che avrei dovuto scriverne un testo per il teatro Stabile di Catania, purtroppo progetto che non andò in porto. Ma il 6 settembre finalmente lo spettacolo debutterà al Palazzo Cutore di Aci Bonaccorsi con la regia di Gisella Cali’. Lo voglio ricordare con la prefazione al mio libro corredato dalle foto di Giuseppe Leone:
“San Berillo ha avuto grande importanza nella mia gioventù catanese. A metà degli anni ’50 tutta la città passeggiava riversandosi in via etnea e, per noi diciottenni, c’era una deviazione obbligatoria verso il quartiere San Berillo dove, in case compiacenti e autorizzate, si dava libero e poco costoso sfogo ai nostri bollenti spiriti. Erano tante le case chiuse, visitate da maschi di ogni tipo e censo, solo diversi quanto alle personali capacità economiche. Un intrecciarsi di dialetti della città e della provincia e tante entraîneuse continentali arrivate per “spegnere” il fuoco siciliano. Improvvisa si sparse una notizia: San Berillo sarebbe stato demolito e sarebbe sorto un grande quartiere per fare affacciare Catania alla distesa azzurra del suo mare. Passeggiavo con il compianto Pippo Fava, maestro di giornalismo e di vita. Ci colpì vedere gli appartamenti spaccati dalle inesorabili pale meccaniche. Stanze abbattute a metà, alle residue carte da parati erano attaccati specchi ancora sani e lampadari sbrindellati, al posto della polvere sentivamo ancora l’odore forte e pesante di profumi e ciprie a buon mercato. A Fava venne un’idea geniale: Perché non scrivere un lamento di un cittadino, sgomento di fronte a quello spettacolo, testimonianza di una giovinezza sfiorita, di amori conquistati a poche lire? E così, parafrasando Garçia Lorca, scrivemmo Lamento in morte di una casa chiusa. La rappresentazione ebbe successo anche se le autorità in sala non gradirono molto l’allusione. Ci riprova ora Domenico Trischitta, riaprendo con coraggio una dolente ferita della memoria, intanto il nuovo San Berillo non è ancora nato. C’è un mega progetto che, purtroppo, non è stato realizzato.”
