CATANIA – Capire se un’intrusione laterale di magma sull’Etna si fermerà oppure proseguirà verso le quote più basse, minacciando centri abitati e infrastrutture, rappresenta da sempre una delle sfide più complesse per chi sorveglia il vulcano. Oggi, i ricercatori dell’Osservatorio Etneo dell’INGV potrebbero aver individuato una risposta decisiva, nascosta nel vero e proprio “linguaggio” dei terremoti.
Lo studio, pubblicato su una prestigiosa rivista scientifica internazionale, si è concentrato sulle cosiddette intrusioni laterali: fratture del sottosuolo lungo le quali il magma si propaga orizzontalmente a bassa quota, rappresentando il principale fattore di rischio per le aree popolate che sorgono alle pendici del vulcano.
L’obiettivo dei ricercatori era individuare un segnale sismico affidabile in grado di prevedere, in tempo quasi reale, se queste intrusioni siano destinate ad arrestarsi o a evolvere in un’eruzione pericolosa.
«La chiave sta nel cambiamento del tipo di terremoti generati», spiega Alessandro Bonaccorso, dirigente di ricerca dell’INGV. «Normalmente, la risalita del magma provoca terremoti da stiramento, detti meccanismi diretti. Ma quando iniziano a comparire terremoti da compressione, i cosiddetti meccanismi inversi, il quadro cambia radicalmente».
Un concetto chiarito dalla ricercatrice Carla Musumeci: «È come se il magma incontrasse un muro. Quella compressione indica una resistenza crescente, che può portare al rallentamento e infine all’arresto dell’intrusione».
Analizzando alcune delle principali crisi eruttive dell’Etna, dall’eruzione del 2002 fino a quella del 2018, il modello ha mostrato una sorprendente coerenza: la fase finale delle intrusioni che non sono riuscite a raggiungere la superficie è sempre stata caratterizzata dalla comparsa dei terremoti “inversi”.
Emblematico il caso del 2002, quando i ricercatori dell’Osservatorio Etneo, osservando questi segnali sismici, ipotizzarono – con coraggio e precisione – l’imminente arresto del dicco magmatico, evitando così allarmi ingiustificati e conseguenze sociali rilevanti.
«Quello che abbiamo individuato è un indicatore semplice ma potentissimo», sottolinea Elisabetta Giampiccolo, coautrice dello studio. «La comparsa dei meccanismi inversi non è un’anomalia, ma un vero e proprio freno sismico. Ci consente di riconoscere il potenziale arresto di un’intrusione in tempo quasi reale, offrendo uno strumento concreto a supporto delle decisioni della Protezione Civile».
Un ulteriore punto di forza del metodo è la sua semplicità applicativa: basandosi esclusivamente sui dati sismici, facilmente e rapidamente disponibili, può essere utilizzato anche su altri vulcani del mondo, soprattutto quelli meno densamente monitorati.
Una scoperta che rafforza il ruolo della ricerca scientifica nella tutela del territorio etneo e nella sicurezza delle comunità che convivono quotidianamente con uno dei vulcani più attivi e studiati al mondo.
Foto: Pieremanuele Sberni / Unsplash
