Enzo Indaco, nato tra l’acqua e il fuoco, ci lascia all’età di ottantacinque anni.
Originario di Paternò – l’antica Hybla Major – muove i suoi primi passi di artista tra le acque del Simeto e il fuoco dell’Etna e assorbe la sacralità di questi luoghi che emergeranno sempre nelle sue opere, lungo il suo percorso esplorativo che scava la forma dello spazio, oltre il limite della cornice. Vive e lavoraguardando costantemente l’Etna e il mare, da Taormina e da Catania, ritornando spesso sulla sua acropoli natia, quello spazio trascendente che si chiama patria.
Partecipa alla Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma, alla Biennale di Venezia, alla International Art di Basilea, alla International Pro-Art 7″ di Duisburg, alla 73 Art di New York e poi Lubiana, Venezia, Milano, Firenze, Gubbio, Catania, Enna, Palermo, all’interno di un viaggio artistico senza fine e confine. Un’artista che incide profondamente nella cultura del suo tempo e si colloca in un panorama internazionale come esponente della Land Art, fino a sperimentare il figurativismo concettuale.
Dal 1965 ad oggi ha costruito nuova narrazione dello spazio, invadendo ogni possibile ambiente, determinando innumerevoli paesaggi culturali. Hanno scritto di lui: Francesco Gallo, Carmine Benincasa, Claudia Gianferrari, Italo Mussa, Achille Bonito Oliva, Tommaso Trini, Francesco Carbone, Rossana Bossaglia, Lara Vinca Masini, Mario Penelope, Marcello Venturoli, Mirella Bentivoglio, Liliana Bortolon, Arturo Bove, Guido Ballo, Vito Apuleo, Lorenza Trucchi, Raffaele De Grada, Vittorio Sgarbi, Giuseppe Frazzetto. Un elenco autorevole di critici e storici dell’arte che contribuiscono a definire il profilo dell’artista e la sua portanza culturale.
Enzo Indaco, scrive Ornella Fazzina, “Sin dagli anni Sessantarappresenta una figura di riferimento nel panorama artistico nazionale essendo uno dei protagonisti di quei movimenti che hanno segnato una drastica rottura con il concetto stesso di arte, occupando la galleria, un microspazio, con una macrostruttura che il pubblico modifica, nel caso dell’arte-ambiente, e trasferendo l’opera e l’operazione artistica al di fuori della galleria, una microstruttura in un macro spazio, nel caso della Land Art.
Dall’arte-ambiente all’arte concettuale, alla performance art e alla Land Art, attraversando l’astrattismo per giungere alle opere figurative degli ultimi anni, il suo registro linguistico ha subito modificazioni nei vari passaggi attuati, pur leggendo tra le righe una coerenza e continuità di pensiero che contraddistinguono tutta la sua produzione artistica.
L’antologica a Noto che parte dal 1965-66, con lavori di arte-ambiente e Land Art, e arriva fino ai giorni nostri, vuol essere la testimonianza di un percorso vissuto intensamente, un che ha messo Enzo Indaco di fronte alla grande avventura della creazione artistica”.
A fine anni Sessanta e inizio anni Settanta l’arte invade il sociale e le performance dell’ambiente e sull’ambiente diventano espressione di un processo artistico che vuol essere presente in tutto lo spazio della vita, tendente poi all’immaginazione partendo dalla visione concreta della realtà trasposta su una superficie animata da linee e accordi cromatici. In tal modo, dai grandi spazi la pittura ritorna a guardare sé stessa dopo aver abitato spazi “altri””.
Negli ultimi anni, Enzo Indaco aveva tentato di tornare a casa, come tanti artisti nel passato, che sono diventati – loro malgrado – nomadi. Il desiderio di ogni artista è trovare pace dove tutto è iniziato, lui già direttore dell’Accademia di Belle Arti di Catania, è stato uno dei protagonisti di quella meravigliosa stagione di arte e cultura che aveva come baricentro la Galleria di Arte Moderna di Paternò, poi brutalmente sopressa. Indaco passa dalla terra dell’esistenza a quella della dimenticanza, o almeno rischia di far parte di quella schiera di uomini illustri che meriterebbero un cenotafio dell’arte. Cannavò, Fallica, Palumbo, D’Inessa, Bona, Verna, Borzi, tanto per fare un esempio. Tutti in attesa di uno spazio espositivo che li possa celebrare. Forse la perdita di questo ultimo gigante dell’arte può essere il pretesto per ricucire il rapporto tra memoria e modernità, creando una liturgia museografica, come testimonianza e narrazione dell’arte di questa città. Un rapporto che si spegne ogni giorno di più, sepolto da superficialismi culturali, spesso privi di spessore. Ricordare è come seminare, ma i semi vanno scelti e non presi a caso.
Ma possono, questi artisti, tornare nella modernità? È possibile mettere le basi per creare una nuova Galleria di Arte Moderna che accolga i suoi artisti più prestigiosi? Forse serve l’iniziativa privata con il sostegno pubblico dei discendenti. Serve uno spazio che accolga le opere, determinando uno spazio museale concreto e fruibile. Indaco è l’ultimo di una generazione di giganti dell’arte che ci lascia un’eredità. La responsabilità di testimoniare e raccontare.
