Poche albe a Natale. Affiora una scena, familiare a molti e forse prediletta quando tutto par essere cinereo. Non può non riverberare, come fosse un miraggio. Eccoli, i vecchi del vicinato. I nonni e i loro gradevoli amici. Attempati dalla fronte al mento. Ancora fanciulleschi in quel loro sorriso. Era sorridendo che colmavano la mia curiosità di bimbo. Il freddo di quel tramonto, solo a pensarci, già si ridesta anch’esso, come fosse pelle di gelo sul mio incarnato. La stufa a legna, da sola, non bastava.
«Il nostro parco, il Giardino della Vittoria e il Monumento ai Caduti, non sono gli unici luoghi che ricordano le due grandi guerre, figliolo».
Del limone cricchia sulla carbonella del braciere.
«Il nostro paese, come tanti, di cantuccio in viuzza, ha tanto da dire».
“C’è molto che non è scritto”, disse la maestra, un giorno.
«Scordati, eroi scordati! In Via Martino, fu ammazzato un carabiniere, tanto tempo fa. Il padre di mio padre me ne parlava e io, ora, lo dico a te. Tutto ruota, come fai tu con la macchinina sul cerchio della conca. Si chiamava Angelo, se mal non ricordo».
Fu dispiegata un’imposta, giusto per arieggiare quel tantino bastante.
«Via Cappuccini, al ’43, era piena zeppa di buche. Pareva un colabrodo. Solo una due ruote poteva percorrerla serpeggiando, come fai tu con la bici, a zig-zag. I concittadini usarono le macerie, ogni rottame e pure i mobili fracassati per riempire e coprire quelle fosse! Già negli anni cinquanta pareva un’altra».
Sul fornello, fu posta una teiera.
«A San Filippo, sul cavo del traliccio, la gamba d’un uomo, chissà di chi, penzolò molti giorni. Ci fece ben capire quanto fosse ancora selvaggio l’uomo!».
Un pomidoro crocchia sulla stufa.
«Oltre al camposanto, verso Centuripe, dove c’era il bunker, inglesi, americani e tedeschi, vuotarono i caricatori fino all’ultimo colpo. Quanti figli di madre son caduti lì, dove si coltivava il cotone».
Seguitò Don Turi: «Nel quartiere Ignonilli, Donna Rosa, fece rientro a casa sua o in ciò che ne restò, dopo i bombardamenti e, proprio lì, morì. Fu lesta come una lepre per raccogliere le cose sue, eppure, quella scala dissestata e pericolante piombò giù e non la risparmiò. Era il novembre del ‘43».
E ancora sua moglie: «Quando sfollammo, ci rifugiammo in Contrada Ruvolita. Da questa si correva giù al paese solo per un funerale, una medicina o per raccattare qualcosa. Quanta fame abbiamo patito! Mio padre ci dava due sole strisce di pagnotta. Una grande. Una piccola. Quest’ultima era inzuppata di latte. Ci dicevano ch’era il companatico … ch’era come il cacio e mangiavamo. Lassù, tra i campi, fu eretto un altarino e le madri invocavano la grazia per gli uomini in guerra. Ci fu un estate arida e quando diluviò fu come battezzarsi. Ci abbeverammo con le restucce dalle infossature solcate dagli zoccoli dei buoi, come fai tu con la cannuccia».
Concluse il più grande d’età: «Quando costruimmo casa, nel gettar le fondamenta, impiegammo di tutto. Dai carretti, giungevano pure statue della Madonna e busti del Salvatore in frantumi. Manco Cristo era in pace!».
Domandai cos’altro avrei potuto fare un giorno per quella gente, dato che avevo già pregato. Mi si rispose concisamente e in modo asciutto.
«Raccontare, perché i morti vivono se dici di loro!».
Con l’avvento delle prime giornate soleggiate, mi recai pedalando in quei luoghi. Al primo tema che ne concedesse l’argomento, chino sul banco, narrai quanto appreso. Quelle storie, senza libri che ne parlassero, furono lette persino in aula magna. Ascoltarono in tanti. Quegli attenti viventi e, forse, chissà, pure i caduti.
Alessandro Montalto, poeta e scrittore. Vive e lavora ad Adrano. Nel 2006 ha pubblicato la silloge poetica “Frammenti amalgamati”. Del 2015 i “Racconti dell’indefinito”. Di recente, “Storie di uomini e vite d’eroi”, Edizioni Efesto, Roma.