Shoah. Scuola e teatro, per ricordare il senso dell’umanità

Ricordare, per costruire un futuro possibile. Ogni anno, il 27 gennaio – giorno in cui, nel lontano ’45, le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz – riemerge il dramma dell’Olocausto. Le tracce di un dramma umano – di tutti e non solo degli Ebrei – che ha segnato un cambio di prospettiva, nel nostro modo di percepire il limite tra bene e male, tra umanità e malvagità.

Le scuole, si preparano a vivere – in questa settimana – quei ricordi di atrocità verso l’uomo; con la visione di film e documentari, che ormai fanno parte della letteratura consolidata della Shoah.

I ragazzi del Liceo De Sanctis di Paternò, insieme a tante altre scuole della provincia, hanno vissuto invece, un’esperienza nuova allo Zō Centro Culture Contemporanee di Catania, grazie alla compagnia teatrale Banned Theatre che ha presentato l’opera: Segni di mani femminili, di Valentina Ferrante.

Lontani dai soliti clichè, Nunzio Bonadonna, Micaela De Grandi e Valentina Ferrante (gli attori) – hanno narrato una storia originale e dimenticata, quella della “medichessa” Ebrea Virdimura, vissuta nella Catania del XIV secolo. Coerenti alla missione della compagnia teatrale – “che punta a rappresentare testi inediti o di autori banditi o allontanati dalla proprie nazioni, tradotti in altre lingue” – l’opera esplora il paesaggio della comunità ebraica a Catania e in particolare la sua declinazione al femminile. La donna ebrea Virdimura, nel 1376 –emancipata, istruita e indipendente, che dichiara di voler curare i più poveri – “sboccia come un piccolo fiore rivoluzionario nel cammino di sangue e fuoco del popolo ebraico. Angoscia e speranza si nutrono l’una dell’altra, disegnando questa silenziosa rivoluzione. Attraverso il racconto della vita di Virdimura, si affronta inoltre il tema attuale della diversità, condannando gli integralismi di tipo religioso e restituendo dignità agli esseri umani, qualunque sia il loro credo.”

Perché spesso confondiamo Tel Aviv con Gerusalemme. Uno stato per un credo. Un confine per un’idea. La storia ci racconta di innumerevoli genocidi, di atrocità e di azioni ignobili dell’uomo sull’uomo. In tante parti del mondo, per le ragioni più varie, ma che si riassumono nel desiderio di possedere “l’altro”, di soggiogarlo per una terra, per una risorsa, per il potere. Qualsiasi massacro che l’uomo esercita sull’uomo (e sull’ambiente) – qualunque sia il suo credo, il suo colore, la sua storia, la sua terra – è da condannare e ricordare, ora e per sempre, per oggi e per le future generazioni. Ma colpisce – pensando agli Ebrei – la ridondanza nel tempo e nello spazio. Dalla Sicilia alla Spagna, dalla Francia alla Polonia. Dalla Persia all’Egitto. Dal tempo biblico ad oggi.

Per questo motivo, l’opera teatrale ci restituisce una territorialità del dramma che a noi piace e che stupisce gli studenti e lo spettatore. A Catania, sotto casa, dentro le nostre mura e non nella lontana Auschwitz. Questo è il primo segno – nell’esperienza teatrale vissuta – che emoziona lo spettatore.

E allora capita che un gruppo di studenti, ormai saturi dei soliti film di genere sulla shoah, si ritrovano stupiti, emozionati, commossi, trascinati da una narrazione coinvolgente. Silenziosi e attenti alle sfumature, che la scena, gli attori e la storia, propongono al loro intelletto. Un racconto che si compone di tanti linguaggi, tanti, come i tanti modi di fare teatro: classico, contemporaneo e di ricerca, commedia dell’arte, pantomima, teatro delle ombre. Dentro la storia di Virdimura, altre storie. Un filo narrativo che mette insieme due tempi: quello del XIV secolo e quello contemporaneo. Quello storico e quello allegorico. Un atlante di simboli, segni – misurati e funzionali, per dare forma didattica all’opera – tracciano delle costellazioni emozionali, un palinsesto di eventi, di fatti, di miti, e di racconti, che attraversano il tempo

I costumi e la scena sono minimali, essenziali e funzionali al dispositivo narrativo. L’attore prende e l’attore ripone, su di un filo steso, gli strumenti della recitazione: abiti, maschere, oggetti, panni e baldacchino. Originale l’allestimento che si fa cornice agli attori, alla loro capacità mimica; la distanza tra lo spettatore e il narratore – che appartiene alla dimensione del teatro greco – rende il “teatro”, il luogo della rappresentazione della natura (umana). I suoni, si fanno ritmo. Le voci si trasformano in personaggi e scandiscono le parti, tracciando un filo che collega gli attori alla storia. Irrompono nella scena – come voci fuori campo – i contributi di Alessandro Aiello (Video maker) e Nellina Laganà (attrice) che dilatano lo spazio, lo trasportano oltre la scena, dentro una dimensione metafisica.

Le relazioni e le sequenze tra le parti del racconto sono fluide, chiare e naturali. Si coglie la matericità degli attori, i loro corpi sudati e carichi di tensione teatrale che disegnano lo spazio, anche attraverso gli sguardi, tra i personaggi che si susseguono ritmicamente e gli spettatori quasi increduli. Interno ed esterno, due donne e un uomo.

 

Alla fine non finisce nulla. Si intravedono le lacrime che sgorgano dagli occhi dell’anima. Ma nessun sipario divide gli spettatori dagli attori e cosi inizia un nuovo spettacolo. Quello didattico, che gli attori tessono con gli studenti/spettatori. Domande, curiosità, per spiegare ancora, per esplodere il racconto fino a destrutturarlo. Questa l’emozione più forte, come se gli spettatori fossero ora gli attori. Allora qualche giovane studente si fa coraggio e chiede, curioso di sapere. Il perchè di un panno insanguinato, di un cordone di stoffa. Le ragioni di un colore. quasi il desiderio di toccare il “teatro”. A questo punto la sorpresa. Un’attrice si spoglia della maschera teatrale e mette qualcosa davanti ai suoi occhi. “Io sono un donna con gli occhiali”, dice. Come per dichiarare la sua appartenenza all’umanità e non alla mitologia del racconto interpretato. Rimane il retrogusto di una storia emozionante, che si traduce in impegno collettivo. Mai una nuova tragedia per l’uomo, mai l’uomo contro l’uomo. Questa è la magia del teatro, questa è la magia della narrazione. Il teatro, come dispositivo per rappresentare la natura (dell’uomo) per capire l’uomo e la sua storia, come la pittura, la scultura, l’architettura, la musica, la letteratura. L’arte, ancora una volta, come allegoria del filo sottile che lega l’uomo all’idea del divino.

Per approfondire: https://www.youtube.com/watch?v=uReJbAywzTQ&feature=youtu.be

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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