Imago Urbis: l’indignazione e l’azione silente

Un pugno allo stomaco. La fotografia di una cruda realtà, sbattuta in faccia, senza pudore. Dopo la puntata di Piazza Pulita – mandata in onda sulla La7 – qualche sera fa, la città di Paternò, (forse simbolicamente tutto il meridione) si è svegliata stordita, impaurita, indignata e ferita.

Il racconto giornalistico ha denunciato lo sfruttamento della manodopera extracomunitaria, nella raccolta stagionale delle arance e le difficoltà dei lavoratori locali – licenziati e sottopagati – costretti a fingersi “stranieri” nella loro stessa terra, per qualche giornata di lavoro.

Un pugno allo stomaco. Perché abbiamo visto la povertà e la disperazione, nelle parole di quegli uomini, nascosti dalla notte e dalla storia. Abituati ai salotti televisivi, dove la politica filosofeggia – qualche volta sterilmente – con i suoi attori protagonisti, ormai scollegati dalla realtà, ma in perfetto dress code italian style e con un italiano forbito, intercalato da citazioni francesi; è possibile che siamo rimasti tutti attoniti. Quasi come fossero i personaggi dei “I Malavoglia” di Giovanni Verga – i dialoghi degli intervistati – erano in dialetto siciliano (quello che nascondiamo, come se fosse una colpa); i loro abiti, i loro volti e le loro mani, erano invece, il ricordo degli “Gli spaccapietre” di Gustave Courbet e delle “Le spigolatrici” di François Millet. Perché l’arte ha già raccontato questa storia.

Gli spaccapietra di Coubert
Le spigolatrici di Millet

 

 

 

 

 

 

 

 

Nulla che assomigliasse a un programma televisivo. Nulla. Era post realismo. Forse qualcuno voleva persino giustificare il voto del 4 marzo con questa “imago” stereotipata, in cui l’equazione è: se non vincono quelli che pensavano di vincere, significa che questa terra è fatta solo di spaccapietre e spigolatrici verghiane, in cerca di assistenzialismo. Un pugno allo stomaco e fa ancora male.

L’Imago che ne deriva – come avrebbe declinato Gustav Jung – disturba la nostra percezione della realtà. Ci proietta in un mondo immaginifico fatto di paura, povertà, precarietà e morte. Ci riporta indietro nel tempo e svela le nostre più profonde paure. Riconfigurare questa nuova realtà – nascosta ad arte dal nostro inconscio – è utile per sopravvivere. E’ necessario quindi creare una dimensione “fantasmatica” che rimetta la polvere sotto il tappeto. L’Imago è quindi – in questo caso – la rappresentazione inconscia, è uno schema immaginario, un prototipo inconscio che orienta in maniera specifica il modo in cui il soggetto percepisce l’altro, … non va peraltro considerata come correlato di figure reali, ma presenta carattere fantasmatico (dizionario Treccani).

Infatti è facile sentire, dopo aver visto il servizio della La 7, il coro di chi – in buona fede e condizionati dalla definizione precedente di Jung – contrappone, all’imbarazzante realismo sociale e alla cruda realtà, l’elenco delle più belle cose della città. I monumenti, la natura, la storia e persino l’antico lignaggio di tali politici, che hanno avuto i natali in questa città. Anche quando ci fu la storia – qualche anno fa – dell’inchino alla santa, da parte di devoti indipendenti – e ora comprendo meglio sul piano psicanalitico – si scatenò una difesa d’ufficio che contrapponeva alla “vergogna” mediatica – ancora una volta – l’elenco delle bellezze locali.

Certo, vedere che sotto i nostri occhi – che spesso teniamo chiusi ad arte – si consumano storie come quelle che ha denunciato la giornalista di Piazza Pulita; con uomini che vivono in povertà, sotto le tende a pochi euro al giorno, pagati a 3 centesimi al kg raccolto, è devastante. Come sentire di gente, che per lavorare deve vergognarsi di essere siciliano e non è una quesitone etnica e razziale. Ma non bisogna mettere la polvere sotto il tappeto, bisogna guardare in faccia la realtà.

Per esempio cominciare a parlare di costo del lavoro, in relazione al valore del prodotto. Quindi al mercato. Non ci sono dubbi che il lavoro nero e il capolarato, non sia “cosa buona e giusta. Ma non è comprensibile, come si possa avere un costo del lavoro, superiore al valore del prodotto. Vediamo di capire meglio. Il produttore di agrumi, sostiene i costi per la coltivazione, la raccolta, il trasporto e la commercializzazione. Se la somma di questi costi supera il valore al kilogrammo, dell’arancia, il produttore fallisce. In breve: al kilogrammo, il prodotto vale 50 centesimi e il costo per produrlo è 60 centesimi, ergo qualcosa non va. Abbassiamo i costi. Come? Il lavoro nero è una strategia – illegale e umiliante per i lavoratori – che si configura come via di fuga per il produttore/commerciante.

Quindi se vogliamo combattere il capolarato e il lavoro nero, dobbiamo aiutare il produttore ad abbassare i costi di produzione legalmente, magari con defiscalizzazioni, con minor costi di trasporto delle merci (quello ferroviario è più competitivo), con incubazione e centralizzazione delle politiche di marketing, con l’assistenza all’internazionalizzazione dei mercati e la protezione del mercato agrumicolo, dalle speculazioni della politica globale compensativa (quando ci vendono sull’altare della convenienza internazionale). Avviare tutte queste politiche di sostegno, a condizione che ci sia dignità certificata per i lavoratori. E’ una via possibile, e questa non è certamente la sede per approfondire ed esaurire l’argomento, ma alcune politiche del Presidente della Regione Sicilia di questi giorni, incoraggiano a ben sperare, perché il potenziamento della mobilità pubblica è alla base dello sviluppo economico sostenibile.

L’ultima riflessione sulla questione dell’imago è dedicata all’esperienza della “Bisaccia del Pellegrino”, che è gestita dalla Caritas Vicariale, insieme al Comune di Paternò e all’IPAB Salvatore Bellia. A questi, si affiancano molte realtà associative e singoli cittadini (per un totale di quasi 400 volontari), che hanno deciso di guardare in faccia la realtà, per dimostrare che la città non è assopita. Anche questo è un modo di percepire e di reagire alla realtà. Al dramma raccontato dalla TV, si può contrapporre – non tanto l’indignazione per una città apparsa mostruosa – ma l’esperienza del volontariato sociale, che offre la cena quasi tutti i giorni ad umili extracomunitari e a tanta gente di questa città, sprofondata nella povertà. Antonio Arena, della Caritas Vicariale, ci dice che “oltre la cena (tranne la domenica), sono attivi i servizi per la pulizia personale e della biancheria, oltre che la fornitura di vestiario per gli uomini e le donne che ne hanno bisogno”. Un’azione silente, che costruisce una comunità interreligiosa e solidale. Riservata e concreta, lontana dai salotti della TV e della politica “solonica”, sempre più lontana dai bisogni della collettività.

Tanti modi per agire. Il volontariato da una parte e, si spera, la comunità politica dall’altra. Che ha il dovere di sostenere nuove azioni di sviluppo economico a partire dal sostegno all’agricoltura in tutta la sua filiera.

Ad ognuno la sua parte. Per tornare a parlare di monumenti e non di schiavi.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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