Memoria, il tempo dell’alzheimer collettivo: educare le nuove generazioni a ricordare

di Francesco Finocchiaro

La specie umana, tra tut[sg_popup id=”7353″ event=”inherit”][/sg_popup]ti gli esseri viventi, si contraddistingue per tre specifiche caratteristiche, definite appunto “umane”.

La capacità di accumulare “memoria” fissando nella mente esperienze, conoscenze, informazioni, eventi e osservazioni. La capacità di “elaborare” il contenuto della memoria stessa, con infinite applicazioni, dispositivi, soluzioni e invenzioni. La capacità di “trasferire” tutto il patrimonio di memoria archiviato ed elaborato, alle future generazioni con dispositivi che si sono modificati nel tempo, dai primi graffiti agli archivi digitali, passando per la scrittura e la stampa.

Ulisse incontra Circe e mantiene la memoria di Itaca, come meta da raggiungere. I suoi compagni di viaggio no e pertanto diventano animali, privi di memoria. Omero narra questi fatti e Jean-Pierre Vernant con il suo saggio L’universo, gli dei, gli uomini, ci spiega meglio questa allegoria.

 Quindi la memoria caratterizza la specie umana e quando la collettività perde la sua memoria, perde l’umanità. Alcuni popoli nel corso dei secoli l’hanno conservata ed esaltata, oppure l’hanno cancellata. Con il tempo, l’obsolescenza dei ricordi,  ha impoverito il DNA culturale di porzioni significative della popolazione. Poi l’hanno chiamata società liquida.

In qualche caso, qualcuno ricorda solo una parte, quella che è più funzionale ai propri scopi. E su questa porzione di memoria costruisce, storpiandoli, nuovi segni e significati – penso in Europa al Nazismo o al fascismo – tema che approfondisce Umberto Eco, nel suo saggio Il Fascismo Eterno.

E’ importante ricordare e soprattutto cosa ricordare. Non tutti sono sensibili e attenti a questa funzione e per questo sviluppano la memoria breve, quelle che scade quasi subito, relegando la “memoria” nelle profondità dell’Ade.

 Alcune comunità, penso agli ebrei, hanno sviluppato un culto della memoria forte e profondo. L’olocausto del ‘900 – ultima delle disgrazie in ordine di apparizione – ha prodotto innumerevoli monumenti e memoriali. Spesso questi hanno caratterizzato la scena urbana, con significati universali come il memoriale a Berlino, progettato da Peter Eisenmann. Anche i romani – per ricordare altro – hanno celebrato la memoria, con archi, colonnati e monumenti come per esempio l’Ara Pacis a Roma. In molte città, si edificano architetture e sculture – negli spazi collettivi per narrare e celebrare la storia di un popolo.

E che dire del Cretto di Alberto Burri a Gibellina? Una scultura urbana che narra il terremoto diventando paesaggio della memoria.

In molte città europee si realizzano altri templi della memoria. Gli archivi storici. E basta ricordare per tutti, quel capolavoro che è l’archivio municipale di Toledo di Ignacio Mendaro Corsini. Architettura alla scala urbana, che racchiude nello stesso  corpo, funzione e significato.

Allora cerco di comprendere cosa succede intorno a noi. Il nostro Paese ha perso la capacità di pensare luoghi della memoria. La massima espressione visibile afferisce ai murales della street art (con tutto rispetto). Oppure la dedica di qualche piazza o strada. Che fine ha fatto l’architettura e l’urbanistica ideologica in Italia? O l’arte a servizio di un’idea? O le architetture che rappresentano un principio etico, politico, culturale? Avete mai visto un archivio municipale? Di solito è nello scantinato di un palazzo con un impiegato, che occupa quella posizione quasi per punizione.
Questa è l’amara fotografia del nostro Paese. Le città tendono a dimenticare, tutto, tutti per esaltare l’effimera bellezza del momento. In altre nazioni non è proprio cosi. Ergo non educhiamo più le nuove generazioni a ricordare.

 Ed è questa una delle cause della regressione collettiva, che caratterizza il nostro tempo e la nostra terra. Abbiamo dimenticato e nessuno ricorda più nulla. Sono passati già settant’anni dalla nascita della Repubblica Italiana. Chi ricorda i fascisti? Chi ricorda il dramma della guerra? Chi ricorda la fame? Chi ricorda l’immigrazione verso l’America, il Canada, l’Australia, il Belgio? Chi ricorda gli uomini che sono morti per la liberà?. E meno male che molti anni fa hanno costruito i monumenti ai caduti, quelli a cui si depone una corona d’alloro il 4 novembre, quelli in cui si vede solo un gruppetto di politici mentre il resto della città è altrove.

 Quindi siamo un popolo che non ha il culto della storia e della memoria. E si vede proprio dal valore che diamo alle architetture commemorative,  alla mancanza di archivi storici (quelli fatti bene), e  interventi urbanistici come quelli dell’ ‘800 e del ‘900. Anche nei cimiteri – luoghi per definizione della memoria – abbiamo perso l’abitudine alla bellezza e all’arte. Perdita delle ideologie e degli strumenti per rappresentarle nello spazio urbano. Quindi mancanza di educazione civica.

 Questo scenario spiegherebbe l’impoverimento dell’identità collettiva. Spiegherebbe le aggressioni sui social e non solo. Spiegherebbe l’impoverimento del dibattito politico – che si riduce a gossipopolis. Spiegherebbe il vuoto di memoria collettivo sul tema dell’immigrazione. Solo chi non ricorda la privazione della libertà di espressione (fascista) impedisce il confronto politico e la dialettica tra le parti sociali, dentro l’alveo del rispetto reciproco.

 Hanno rosicchiato la memoria. Quella di pietra, fatta per l’eternità e l’hanno sostituita con quella di carta, usa e getta. Si, perché basterebbe ricordare per capire. Ricordare gli antefatti alla seconda guerra mondiale (ma ormai chi ricorda?) per darsi una calmata. Nazionalismi, fanatismi, fondamentalismi e cosi via. Abbiamo perso la memoria. Viviamo una fase di alzheimer collettivo. Viviamo un conflitto tra generazioni, irrisolto. Siamo interessati alla rottamazione di tutto e degli altri. Per poi essere le vittima della stessa rottamazione. Dobbiamo tornare a ricordare, a celebrare la memoria e la storia come propulsore per il futuro. Non dobbiamo dimenticare la nostra Itaca. E se tutto questo è chiaro, dobbiamo riconfigurare il nostro modo di percepire le nuove immigrazioni dal sud del mondo. Riconfigurare le modalità di integrazione e di accoglienza non dimenticando la nostra natura (umana) che si deve coniugare con il Diritto e allora ricordiamo l’antica Roma e non perdiamo la memoria. Ogni giorno incontriamo Circe, siamo Ulisse o siamo i suoi compagni di viaggio?

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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