Sguardi | l’ultima volta prima di partire

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Se ci fosse dato di vedere per l’ultima volta qualcosa di bello, cosa sceglieremmo? “Voglio vedere il mare” è quello che ha chiesto un 88enne di Ivrea agli uomini dell’ambulanza della Croce Rossa che lo riportavano a casa. “L’ambulanza si ferma sulla spiaggia per esaudire il suo desiderio”. Un ultimo sguardo. E’ questa la storia che ci racconta Carlotta Rocci  sul quotidiano La Repubblica di qualche giorno fa.
 
Una storia commovente, fatta di umanità. La consapevolezza dell’uomo che la sua vita sta per finire e quindi l’esigenza di raccogliere le sue ultime cose. Luoghi e con essi i ricordi più preziosi. Il mare, le onde, la spiaggia. Pietre antiche, vicoli e con essi i profumi. Suoni, sguardi e sorrisi. Un fiume, la terra e in fondo la montagna. Le stelle, un fuoco e le risate spensierate di chi ci ha voluto bene.
Quanti ricordi si sovrappongono, nell’istante in cui posiamo il nostro ultimo sguardo, verso qualcosa, verso un luogo che all’improvviso diventa paesaggio, frammento selezionato dalla nostra mente e non dai nostri occhi.
 
Quante volte ci è capitato di farci questa domanda. E se fosse l’ultima volta?. Lo pensano quegli uomini e quelle donne che aspettano l’ultimo treno, quello che li porterà altrove, dove nulla è conosciuto. In quel luogo – descritto da poeti e sacerdoti, da profeti e da scienziati – da cui non è possibile tornare. Lo pensano quei giovani che partono verso nuove terre, in cerca di fortuna, carichi di speranza e malinconia. Perché questa terra, la loro terra – ricca di ricordi, di amori, e di amicizie – li ha traditi. Lo pensano le madri e i padri, i figli e i nonni, costretti a cambiare casa – come nomadi – perché l’affitto è alto; perché la città non è più sicura; perché ormai siamo in troppi; oppure perché un terremoto ci ha portato via tutto.
 
Quello che ci strazia e scava la nostra anima, è il dover lasciare – per sempre – qualcosa, un luogo, un paesaggio e allora è in quell’istante che vogliamo raccogliere l’ultimo sguardo, l’ultima luce per ricordare. Costruire un album di ricordi tutto nostro. Cartoline immaginifiche che costruiscono una mappa della memoria. Immagini in movimento che si arricchiscono di suoni, profumi e significati.
La nostra mente, il nostro intelletto, struttura, connette, ricompone, interpreta, rielabora nuovi paesaggi immaginifici. Riscrive – come farebbe uno scrittore – una nuova e ricca sceneggiatura in cui le inquadrature sono diverse dalla realtà. Dove i colori sono più saturi e pastosi. Dove i dialoghi sono sottili, solenni, ridondanti.
 
Ognuno di noi ha le sue cartoline, i suoi sguardi, le sue liturgie. Qualcuno vuole rivedere i cortili della sua infanzia, dove si giocava da piccoli e dove la nonna – a pranzo – ci chiamava per mangiare. Luoghi che accompagnavano le nostre giornate spensierate, piene di speranze e di ottimismo. Vicoli e cortili dove tutto aveva un suono, un profumo e cani e gatti erano i nostri compagni di giochi. Uno spazio di relazione tra gli abitanti, dove tutti ci sentivamo protetti. E noi torniamo spesso in quei luoghi ancora oggi, con la mente per ritrovare noi stessi. Quasi come una terapia rigenerativa.
 
C’è chi invece vuole rivedere quella casa, con il suo balcone rivolto verso il mare, verso la chiesa, verso la campagna. Dove siamo cresciuti, dove abbiamo per la prima volta amato, pianto, sperato. Dove abbiamo visto per l’ultima volta il nonno, dove si mangiavano le frittelle di pane, dove il letto era morbido e dove si sentivano i fuochi d’artificio – lontani – dalla finestra della nostra stanza.
Qualche volte, vogliamo rivedere le stelle, non quelle che vedono tutti. Quelle che si possono vedere solo da quella sedia, da quella finestra, da quel balcone, da quella radura. Quelle che sembrano le nostre stelle e di nessun altro. Come se fosse vero e nessuno può capire.
Oppure c’è chi vuole vedere quel posto in cui per la prima volta abbiamo conosciuto l’amore, dove per la prima volta abbiamo accarezzato i seni della donna amata. Dove ci siamo confusi con il cosmo, dove la luna illuminava i nostri corpi nudi. Quel posto circondato di alberi e gnomi, di farfalle e cicale, di cespugli e fruscii. O forse di pietre e stoffe, di altari e confessionali, nascosti tra le pieghe del tempio di Dio. Chi non vorrebbe rivedere per l’ultima volta quei luoghi, per portare con se il ricordo più bello della vita?
 
Ci sono luoghi che hanno accompagnato le nostre esistenze. Luoghi in cui abbiamo fissato il nostro altare, la nostra chiesa, il nostro tempio. Luoghi che rappresentano la nostra sostanza. Il mare, quel mare. Le stelle, quelle stelle, la montagna, quella montagna, la casa e le sue estensioni e solo quella, la campagna e solo quella campagna, fatta di alberi profumanti di zagara.
L’uomo – tra tutti gli esseri viventi – possiede due cose che lo rendono “divino”. La capacità di ricordare (memoria) e la voglia di raccontare (comunicazione).
Nella sua ultima valigia, quella che può contenere poche cose e preziose, Lui, vuole mettere il ricordo di un luogo. Vuole che l’ultima immagine che lo accompagnerà nel viaggio verso l’ignoto – che sia la morte o l’abbandono di quella terra, poco importa – sia quella che lo riporta ai suoi momenti felici. E vorrebbe che il mondo sapesse, che i suoi cari ricordassero che, lui o lei, sono per sempre dentro quel quadro, quello sguardo, quel paesaggio immaginifico. E se qualcuno li volesse ritrovare, basterebbe ritornare in quei luoghi e fissare l’orizzonte e sentire le voci, i profumi e le risate di un tempo. Questa è l’eternità. Oltre lo spazio fisico. E’ il nostro paesaggio metafisico, il nostro paradiso. Quell’uomo anziano di Ivrea, accompagnato dall’ambulanza a vedere per l’ultima volta il mare, ci ha regalato questo insegnamento.
Guardare per l’ultima volta prima di partire, per rimanere li, per sempre.
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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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