Barabbismo e leggerezza: conta la qualità delle idee anche se le sostiene una minoranza

L’incontro con un giovane frate della compagnia dei ministri degli infermi – detti Camilliani – è l’occasione per riflettere sul concetto di “logica della minoranza”. La domanda che spesso ci poniamo è: un’idea è giusta, solo perché la maggioranza delle persone la sostengono? Possiamo affermare che tutto ciò che viene riconosciuto dalla gran parte dei soggetti interpellati, è l’unica idea che dobbiamo considerare?
Il sacerdote difende – al contrario – la logica della minoranza, nel senso che ciò che vale non è il numero di soggetti che aderiscono ad un’idea, ma le idee.
La società della “partecipazione” si è concentrata sulla quantità algebrica dei sostenitori e non sulle idee e quindi sulla qualità delle stesse. Carlo Mangione, al convegno della delegazione zonale Sicilia 03, dell’Avulss, tenutosi a Motta Sant’Anastasia, ha evidenziato – tra le tante sollecitazioni – proprio questo principio. Che poi, non bisogna andare lontano per capirlo. Basta ricordare il primo processo partecipativo della storia: quello che stabilì che Barabba era da salvare e Gesù poteva andare in croce. Pilato dovette prendere atto che l’idea della maggioranza era quella di salvare Barabba e da quel momento i “partecipismi” si possono anche chiamare “barabbismi.

Il sacerdote ci esorta a non scartare a priori l’idea della minoranza solo perché non è sostenuta dalla maggioranza, ma al contrario metterla sulla bilancia con pari dignità e considerarla come idea. Il rischio è che le scelte – che spesso facciamo – sono influenzate solo da questioni algebriche (numero di aderenti) e personali (chi sostiene le idee), mettendo in secondo piano i valori, le implicazioni, le alternative, la sostanza e l’utilità della proposta.

Viviamo in una società che emargina le idee originali e si sente rassicurata a sapere che tutti sono orientati verso un principio, verso un ‘modus’, verso una procedura, verso un obiettivo. Lo dicono tutti, aderiscono tutti, è quello che vuole la maggioranza di noi.

Quando dobbiamo difendere un principio, non lo argomentiamo, preferiamo presentare al nostro interlocutore il numero di aderenti e di sostenitori che ci appoggiano. Abbiamo ragione non perché sappiamo argomentare ma solo perché deteniamo le deleghe di tutti (e chiamiamo tutto questo partecipazione). Ormai ci sono persino i mestieranti della partecipazione, quelli che collezionano deleghe (associative, personali, di gruppi, ecc.) per sostenere obiettivi non sempre coerenti e congruenti. In pratica quelli che di mestiere aggregano associazioni e uomini per promuovere quella o quell’altra ipotesi, indipendentemente dall’alternativa. Alle crociate si gridava ‘Dio lo vuole’, oggi si urla, ‘le associazioni lo vogliono’. Sono cambiati i tempi ma non gli effetti collaterali.

Carlo Mangione ci esorta a riconsiderare le idee, a valutare le diversità, indipendentemente dal numero dei sostenitori dell’una e dell’altra. Il suo monito è potente perché contrappone al ‘barabbismo’, il dibattito e il confronto. Rimette al centro l’argomentazione, il conflitto dialettico, la speculazione intellettuale; scartando l’adesione all’idea confezionata ad arte da una maggioranza, spesso inconsapevole e pigra. Sì, perché spesso si aderisce per pigrizia, per apatia, per opportunismo. E’ più complicato argomentare e speculare, è più facile aderire alla prima idea che passa e sapere di essere parte di una maggioranza ci rasserena. Colma quell’esigenza di vittoria facile che desideriamo, senza nessuna fatica, senza dover dimostrare e strutturare. Abbiamo ragione perché tutti dicono la stessa cosa, nessuno vuole rischiare di dire il contrario, anche se forse intuisce che sarebbe la cosa giusta. Ma se tutti dicono verde, significa che è verde, il resto non conta. Forse dobbiamo riconsiderare “il sano e utile metodo hegeliano”?

Cosa significa? Perché? Abbiamo bisogno che qualcuno pensi per noi, scelga per noi, discuta per noi. Deleghiamo per pigrizia e apatia. Non siamo più cittadini ma tifosi. Non siamo più sofisti ma fanatici. Non siamo più contemplativi ma consumatori. Non siamo più cuochi ma clienti. E’ più facile, più comodo, più gratificante. Costruire le idee è più impegnativo, presuppone la capacità di progettare a partire dal nostro ambiente.

Carlo Mangione ci esorta anche alla leggerezza, forse la stessa a cui fa riferimento Italo Cavino nelle “Lezioni americane”. Quella leggerezza che non vuol dire superficialità ma la capacità di essere semplici e diretti. Quella capacità di farsi capire, senza dover prendere a prestito le teorie quantistiche per dimostrare un principio. Il cristiano (e non solo lui) è chiamato ad essere leggero e rispettoso della logica della minoranza e nello stesso tempo a fuggire la frequentazione dei supermercati parrocchiali dove la fede e la salvezza è una questione solo parrocchiale che si esercita in un recinto fisico e culturale.
Il tema dell’incontro era: ‘Scegliere, provocare, connettersi: le sfide del volontariato nella società dello scontento’.
Ci vedo – in queste argomentazioni – alcuni principi che Papa Francesco propone ormai da tempo. L’esigenza di ascoltare gli altri e di essere semplici nell’incontro. Partire dalle idee e non dal numero di adesioni e comunicare con efficacia senza fronzoli manzoniani. Una bella lezione di umanità e teologia.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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