Paternò, a sud dell’Acropoli la negazione della bellezza: e nessuno si preoccupa di pulire

E’ uno di quei casi in cui prima di formulare la domanda sappiamo già la risposta. La sappiamo e cominciamo proprio da questa: “Non è di nostra competenza”. E’ uno di quei casi in cui tutti rispondono alla stessa maniera, ormai da molti anni: “Non abbiamo i fondi per intervenire e comunque non è di nostra competenza”. Sia che lo si chieda all’amministrazione comunale sia che lo si chieda alla Città Metropolitana (ex Provincia).

Resta il fatto che a sud dell’Acropoli; dentro l’area di vincolo paesaggistico, lungo una regia trazzera, che collegava il quartiere dell’Idria con il fiume e che adesso è una strada rurale; c’è una discarica a cielo aperto di proporzioni ‘bibliche’.
Impossibile percorrerla con la macchina e a piedi e per questo – nei periodi del lavoro stagionale nelle campagne – è l’accampamento degli extracomunitari in transito da Paternò. La vista di questo carnaio umano è impressionante e le condizioni igieniche sanitarie da campo di concentramento. Adesso, come una città abbandonata, rimangono le tracce delle tende – tra i terrazzamenti incolti – e il risultato dell’inciviltà degli indigeni che tutto l’anno ricoprono il tracciato stradale di ogni tipo di rifiuto: organico, edile, ingombrante, speciale, pericoloso. Mattoni, eternit, brande, bambole, cartoni, cibo, plastica, escrementi, frigoriferi, macchine, finestre, arance, … e si potrebbe continuare per ore.

Dove dovrebbe esserci un sentiero, tra muri e agrumeti, segnato da filari di cipressi e basolato con pietre antiche. Dove dovrebbe esserci una segnaletica, oppure uno scavo archeologico, una mappa, una fonte, un punto di ristoro. Dove dovrebbe esserci una pista ciclabile, una panchina, un sentiero natura, uno spazio espositivo di ‘land art’, c’è invece un monumento alla bruttezza, alla tristezza, alla desolazione. Il retro nascosto della civiltà. C’è la polvere sotto il tappeto di tutta la città. C’è la prova dell’indifferenza di chi ha responsabilità dirette e indirette e continua a far finta di nulla, tanto dopo un po’, tutti dimentichiamo e comunque, queste sono cose che non portano voti.

Parliamo di bellezze, parliamo di poesia, parliamo di civiltà della valle del Simeto e non riusciamo a fare due cose semplici: tenere pulite le trazzere – ricche di canali dell’acqua – che ci portano al fiume e lo stesso fiume, che è una fogna a cielo aperto. Quella trazzera merita maggiore attenzione, merita il nostro interesse e la nostra denuncia. Passeggiando – la domenica – in mezzo a questi catasti magici, che cingono l’acropoli, si scopre anche che qualcuno è andato oltre. Ha persino privatizzato le trazzere comunali o provinciali e intorno a queste cose si sono costruiti recinti di silenzio e omertà. Privando la collettività di spazi che potrebbero diventare luoghi di bellezza e ricchezza. E se non bastasse, serve ricordare che è pur sempre una zona vincolata e qualcuno ha delle responsabilità, relativamente alla sua tutela.
Adesso, siamo pronti alla solita risposta: Non è di nostra competenza.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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