Architettura democratica: abitare è un diritto di tutti

La casa è quel luogo dove tutti noi viviamo la nostra vita, quella intima. Uno spazio costruito dall’uomo che rappresenta, in qualche modo, la sua stessa estensione: fisica e simbolica. Un microcosmo dentro il quale celebriamo ogni nostra liturgia. La storia dell’architettura è piena di esperienze, spesso legate ai grandi edifici monumentali: le piramidi, i grandi palazzi, i templi, le cattedrali, i teatri, i monasteri, i giardini e tante altre forme dell’abitare che hanno, in fin dei conti, celebrato la grandezza dell’uomo e il suo desiderio di costruire la torre di Babele, per sfidare Dio.

Conosciamo le grandi piazze, le strade monumentali, i parchi e le scalinate; tutte prendono la forma, in funzione delle architetture che l’uomo ha deciso di costruivi intorno. Grandiose, svettanti, misteriose, queste architetture appartengono al potere politico e religioso, oppure sono al servizio della collettività, ma non sono la casa, la nostra casa, il nostro nido.

La città prende la forma dal tipo di relazione che le singole architetture instaurano tra loro. Prende la forma in funzione dell’armatura connettiva che lega le parti di essa. Il nucleo con il margine, se stessa e altre città, in relazione alla natura.
Rimane comunque un organismo vivo e pulsante dentro il quale si vive, si abita, si celebra, si scambia. Dentro questo organismo, e qualche volta fuori, si collocano le singole abitazioni domestiche. Luoghi privati che emulano i grandi monumenti. La storia dell’architettura ci offre un atlante riccamente articolato per tipi, forme e funzioni, che nel tempo – dalla capanna alla stazione orbitante – ha sempre riproposto alcuni schemi antropologici: i luoghi della convivialità, quelli dell’intimità e del riposo, della produzione-conservazione e quelli della conoscenza e trascendenza.

Tutto questo è vitale per l’uomo, il suo equilibrio psico-fisico dipende dalla possibilità di soddisfare l’esigenza primaria di abitare. Si potrebbe dire che l’uomo vive nella misura in cui si nutre, si riproduce, si protegge, si relaziona, si evolve. Tutto questo dentro uno spazio che chiama casa.
La qualità di questo spazio, la rispondenza alle funzioni vitali minime e la capacità di rappresentare l’uomo che lo abita, in relazione agli altri e a Dio, definisce il canone minimo dell’abitare. Un canone imprescindibile al quale hanno diritto tutti gli uomini, di qualunque etnia, età, nazione, religione e ceto sociale.

Spesso, la qualità dell’architettura – intesa come sopra – sembra solo un diritto per pochi, quelli che possono accedere facilmente alle risorse economiche e culturali. La politica, la tecnocrazia, la filosofia e l’antropologia, devono, in questo senso, riscrivere il paradigma dell’abitare democratico. Tutti hanno diritto alla qualità dell’abitare e dell’architettura.

Ovviamente, la questione è definire il concetto di qualità dell’architettura dell’abitare privato (su quello pubblico e collettivo potremmo approfondire altrove). In questo senso la questione da definire afferisce: alla qualità dello spazio e non della pelle simbolica che lo definisce; alla qualità delle relazioni – visive, funzionali, simboliche ecc. – e non dall’originalità dei materiali che costituiscono l’involucro; alla qualità ambientale, come risposta alle esigenze di sostenibilità complessiva; alla qualità artistica e spirituale, perché l’uomo ha bisogno di elevarsi e vivere la spiritualità come condizione minima per dare un senso alla vita; alla qualità etico-morale, perché bisogna vivere ma anche con-vivere con gli altri e il creato. Tutto questo non significa lussuoso ma ordinario, almeno dovrebbe.

Spesso l’abitare minimo è inteso come l’accomodarsi a qualsiasi condizione. Basta una copertura, delle pareti e la rete degli impianti. E spesso la popolazione che non può accedere alle risorse professionali, culturali e finanziarie è costretta a vivere in condizioni estreme. Avviene per i dimenticati, per i clandestini (di tutte le etnie), per una gran parte di persone che è semplicemente inconsapevole, ormai abituata a sopravvivere in luoghi privi di bellezza fino a non poterla riconoscere più. Assonanze cromatiche, contrazioni spaziali, occultamento delle visuali, mancanza di prospettiva, dispersione termica, assenza di natura, sono solo alcune delle patologie che riguardano l’abitare di tutti. Ci stiamo abituando ad un senso del brutto che poi riconosciamo come bello. Per poi idealizzare un bello che forse è solo ostentazione della ricchezza, del potere, del vuoto.

La responsabilità è forse in parte della stessa architettura e dei suoi sacerdoti. Forse la responsabilità è dell’impoverimento spirituale. Forse la responsabilità è della perdita dei valori umani. Forse è colpa della superficialità e della mancanza di visione prospettica verso il futuro. Forse è necessario ripartire dai luoghi, dall’orientamento, dalla misura, dalle giaciture, dalle relazioni, dalla visione cosmologica, dalla materia, dall’eticità, dalla sobrietà. Oggi la casa privata vuole competere con la cattedrale. Vuole sfidare ancora una volta Dio non con la Torre di Babele ma con le torri, simboli dell’individualità.

Tutti hanno diritto alla qualità dell’architettura. Abitare è un’esigenza primaria per l’uomo e tutti hanno diritto alla casa. E’ un tema politico, antropologico e spirituale. Un punto di partenza per parlare di civiltà e umanità.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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