L’ultimo sorpasso, la morte di un ragazzo sulla strada: cronaca di una tragedia

La strada è come un serpente che cambia forma ripetutamente. Si flette, si curva, anche repentinamente. La strada è dura, incapace di sentire; fatta di asfalto consumato, che strappa la carne, come le fauci di una iena incattivita.
Come un sarcofago vuoto è cinta da un recinto di cemento. Limite invalicabile tra se e la fissità delle cose che attraversa. La strada è relazione tra le cose, è la connessione tra le parti, è il luogo dell’attraversamento. La si vive solo per un attimo, per un istante. Ci ricorda i paesaggi che ci presenta ma non se stessa. Lei si consuma, si logora sempre di più con il nostro passaggio. Per gli antichi Romani era lo strumento più prezioso per la conquista del mondo, per noi solo un serpente nero che scava le terre di nessuno.

La strada è come un serpente. Può aggredire mortalmente. Può rubare una vita. Può strapparla violentemente anche senza un motivo. Le sue fauci, straripanti di veleno sono sopite e silenziose – anche per anni – ma si scatenano improvvisamente senza preavviso contro chiunque, anche contro una giovane vita, divorandola completamente.

La cronaca ci restituisce un corpo, disteso lungo la strada; immobile, spento. Un corpo che non ha più uno sguardo, un sorriso, un gesto dolce. Un corpo che diventa pesante – quando prima era leggero. Un corpo che diventa parte della strada, come una montagna fissata provvisoriamente a terra.

La cronaca ci restituisce molte vittime. Perché muore chi muore e muore chi continua a vivere. Muoiono quelli che erano sul luogo, testimoni di una tragedia ingiusta; muore quell’uomo che ha frenato invano, scivolando sull’asfalto, senza che nessuna traccia a terra gli dicesse dove si trovasse. Muore quell’uomo che ha percepito per un istante il rumore di una vespa – vista solo con la coda dell’occhio – che voleva andare oltre e per un attimo – come in un film – ha capito l’epilogo della scena. Muore quell’uomo in divisa a cui non restava che rilevare tracce, corpi, mezzi e il dolore dei passanti.

La strada è un serpente, che da troppo tempo non riceveva cure: erano quasi scomparse le linee a terra; la natura aveva conquistato il suo margine; il tracciato illogico, fatto di piegature improvvise; l’asfalto consumato e contro pendenza, che quasi accompagna dall’altro lato della carreggiata. Una tomba, un sarcofago vuoto e profondo. La strada è un serpente ma nessuno è senza colpe.

Sembra una sciocchezza ma già le sole linee a terra (mancanti) sono un monito. Un riferimento, una regola. Una linea da non superare. Avrebbero scoraggiato chiunque volesse sorpassare, avrebbero ammonito chiunque avesse subito il sorpasso, avrebbero orientato chiunque avesse deciso di fermare la sua corsa, per non diventare il muro invalicabile contro il quale una giovane vita si è schiantata.

Oggi, il dolore annebbia la mente e priva la ragione di esplorare oltre l’emozione, oltre il visibile, oltre il pregiudizio. In questa tragica storia di mezza estate, i protagonisti sono due vite. Chi ha perso il futuro e chi vivrà per sempre con l’immagine fissata nella mente di quest’attimo pieno di follia e mistero. Ma ci sono altri protagonisti da valutare: la strada, con le sue anomalie; la fila di macchine che salivano verso la montagna, tutte appiccicate l’una a all’altra, impedendo la via di fuga per chiunque volesse sorpassare; chi aveva il dovere di curare la strada, accudirla e renderla sicura; le macchine e le moto con la loro storia di freni, di gomme, di ammortizzatori; la vegetazione, che nasconde ogni visuale. Dietro questa tragedia c’è tanto da verificare.

Resta la follia del sorpasso, il desiderio di andare oltre, di accorciare il tempo, di superare gli altri. L’impazienza, che caratterizza il nostro tempo. Resta – come ha scritto una professoressa – il dolore infinito dentro tutti. Lo sbigottimento, lo stupore, lo strazio di chi resta a vivere la morte. Resta la paura, si perché ognuno di noi ha più paura. La paura di perdere qualcosa di prezioso, all’improvviso. Uno studente è morto. Un figlio è morto, un amico è morto, un vicino di casa è morto e tutto questo ci fa paura. Ci sentiamo dentro questa tragedia più di quanto ci possa sembrare.

Ci fa paura la consapevolezza che il nastro di questo film non si può portare indietro. Ora si può solo ricordare e immaginare quello che non sarà più. E’ la morte, quella sorella che vive vicino a ognuno di noi ma di cui non vogliamo parlare. E allora che in questi casi tutto torna a galla. Anche la consapevolezza che molte cose che ci affannano sono futili ed effimere. Che la rabbia verso persone e cose sono l’ultima delle nostre preoccupazioni. La consapevolezza della morte di restituisce la misura della qualità della vita.

Una madre e un padre piangono un figlio. Una famiglia piange un suo caro. Una scuola piange un suo allievo. Un quartiere piange un suo ragazzo. Una comunità piange un suo componente. Ma il conforto può derivare dal culto della memoria e dalla certezza che non si ripetano le cause scatenanti dell’incidente. Le cui responsabilità non sono di pochi ma di tanti. E’ bene ricordarlo.
Ora, quella foto che ha fissato il tempo della vita e racconta un sorriso, è l’icona di un ragazzo che testimonierà l’inutilità di un sorpasso, per sempre a monito di tanti giovani che hanno bisogno di capire, la vita è preziosa e va difesa sempre.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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