La città mancata, Architettura come esercizio della Politica: riconfigurare i paesaggi urbani incompiuti

Esiste un paesaggio urbano dell’incompiuto che s’insinua in ogni città. Una collezione di anomalie linguistiche, di liberi adattamenti stilistici, di produzioni edilizie prive di qualità architettonica. Una materia invadente e straripante. Così profondamente radicata nel nostro vissuto che ormai è parte integrante del nostro stesso concetto di bellezza.

Incompiuti, incongruenti, inefficienti, sproporzionati, invadenti: è il prodotto edilizio che contraddistingue i paesaggi urbani e rurali. E’ cosi evidente che per molti non rimane che ri-guardare con nostalgia il passato.
Quello che ci lascia stupiti è la qualità dell’architettura nell’edilizia storica, esercitata da maestranze e committenze non sempre colte e consapevoli. E non parlo delle chiese, dei conventi e dei palazzi e più in generale di quelle architetture, che per loro natura, dovevano essere iconiche e rappresentative; parlo dell’immensa produzione edilizia che ha dato forma e dignità alla città storica e alla campagna attraverso una produzione di micro architetture che usavano sapientemente e intelligentemente: la morfologia dei luoghi, il giusto orientamento, l’uso sapiente dei materiali, la coerenza funzionale e la sobrietà linguistica.
Il risultato è una città che possiede gerarchie urbane, connessioni funzionali e simboliche, una forma compiuta. Una città che risponde alle esigenze produttive, ecologiche e della mobilità in maniera semplice ed efficace. Una città che costruisce la propria esistenza sulla profonda conoscenza dei luoghi, sia sul piano morfologico che simbolico. Da una parte i suoi simboli, le sue liturgie, le sue gerarchie: la chiesa, il nobile, il potere; dall’altra la borghesia, gli artisti e quella parte di città che produce attraverso la terra.

Dopo gli anni ’70 si è rotto questo equilibrio e ancora oggi dobbiamo fare i conti con una produzione edilizia che si è auto-referenziata, sino a diventare stile. Una marmellata improvvisata, una produzione convulsiva che denuncia una profonda trasformazione sociale. La percezione generale si riduce a due campi: la città storica, portatrice di qualità, e la città presente (dagli anni ’70 ad oggi) che non convince. Una porzione significativa di città moderna che accettiamo, perché esiste, che subiamo – perché non c’è altro – e che costituisce la porzione più importante del patrimonio edilizio esistente.
L’architettura non ha saputo dare risposte in questo senso, si è concentrata solo su alcuni casi e non si è preoccupata della possibilità di incidere nella cultura di massa. La disponibilità di risorse finanziarie ed energetiche, di informazioni, di terreni hanno reso il mercato immobiliare un terreno di caccia per bracconieri e avventurieri. L’architettura si è rifugiata nelle nicchie, ritagliandosi una fetta di mercato, esercitando (con grandi risultati) una pratica costruttiva che escludeva la maggior parte della popolazione. Lusso, ricercatezza, esclusività, originalità, ostentazione, rappresentatività: un esercizio del progetto che risolveva l’esigenza di voler essere (come per l’antichità) i portatori di qualità in un contesto che non riconosceva più questo ruolo. L’architettura e l’architetto erano diventati corpi estranei alla società di massa, erano diventarti i sacerdoti di ricchi, sia colti che sprovveduti.
Ma la perdita di significato del fare architettura ha portato sempre più lontano la produzione che diventa sempre più emulazione di qualcosa o qualcuno. Scatena quella voglia di assomigliare alle star internazionali, costringe a imitare stili o a utilizzare materiali esotici che vengono ‘vomitati’ continuamente dalle riviste. E se fino a poco tempo fa la produzione editoriale proponeva disegni, ragionamenti, idee con gli strumenti utili al progetto – pianta, sezione, alzato e prospettiva – adesso solo cartoline, icone, iconologie, monumentalità. Allora anche il più piccolo intervento di sostituzione, nella città consolidata, deve rispondere alle nuove esigenze di packaging per stupire, per impressionare. Un neo barocco incessante alla scala domestica che accoglie l’esigenza di apparire, di rappresentare se stessi e non più la collettività.
Discorsi ormai più volte dibattuti, indagati, persino praticati, ma rimane la consapevolezza che tanto bisogna ancora fare. Non solo nelle scuole di architettura, ma nelle scuole, nelle soprintendenze, negli enti locali, nell’editoria. Un processo lento e complicato che deve fare i conti con un pachiderma enorme: le nostre città moderne. Un grande cantiere che andrebbe riconfigurato, ridisegnato, riconsolidato e forse in qualche caso eliminato. Ma bisognerebbe rieducare la collettività, ritrovare il senso comune della bellezza, la profondità del progetto di architettura e il coraggio di esercitare – il mestiere dell’architetto – con più responsabilità civica, pensando, non solo alla monumentalità, ma anche democraticità dell’abitare, all’esigenza di usare l’architettura come strumento educativo e riabilitativo.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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