Coronavirus, piani di rilancio per la Fase 2: su questa sfida si gioca il destino delle comunità locali

Piano piano si comincia a vedere una possibile via di fuga.

Questo maledetto virus ha fatto emergere tutte le criticità del nostro modo di vivere e di gestire le emergenze. Ha evidenziato lo scarto tra povertà e ricchezza, tra dilettantismo e professionalità ma soprattutto ci ha resi più fragili. La prima cosa con cui abbiamo dovuto fare i conti è stata la consapevolezza dell’emergenza. Sembrava scontata, ma i comportamenti dei governi e della popolazione hanno restituito un quadro differenziato. Chi ha nascosto, chi ha ridicolizzato, chi ha sottovalutato, chi ha temporeggiato. Poi c’era da gestire la reazione all’emergenza. Quindi la capacità di individuare strategie per contenere e combattere il diffondersi del virus: dalla scala globale a quella locale.

Sono emerse le complessità del nostro sistema, la sua interdipendenza da molteplici fattori. Chiudere una sola attività, come i bar per esempio, scatena una reazione a catena che rischia di travolgere l’intera collettività. Abbiamo capito che dipendiamo gli uni dagli altri. Nessuno è escluso. Ma abbiamo capito anche, che se le reazioni non sono scientifiche, sistemiche, decise e professionali si genera un doppio effetto negativo. Il virus che uccide e la depressione economica. Ora che si intravede il calo della curva (uno dei più grandi misteri di questa storia) e la diminuzione dei decessi, serve la fase della pianificazione per rilanciare il futuro. La definizione di nuovi modelli di abitare, di produrre, di socializzare, di pensare. Consapevolezza, azione e pianificazione.

Ne siamo capaci? Riusciremo a cogliere la sfida?
Ci sarebbe anche la necessità di verificare, di capire, di indagare sulle anomalie emerse, sui falsi miti, sugli eroi e gli anti eroi. Sulla vera o presunta capacità di gestire questo evento inatteso (non proprio). Non si tratta di fare processi ma di coltivare l’onesta consapevolezza della nostra fragilità per reagire meglio e pianificare con oculatezza.
Due domande vanno però fatte. Il virus Covid-19 è un ‘essere’ con il quale dovremmo, da questo momento in poi, convivere per sempre? Potrebbe arrivare Covid-20, Covid-21, ogni due-tre anni? Le risposte a queste domande possono modificare le nostre scelte di pianificazione a breve e medio termine. Fermo restando che il tema principale – ad oggi – è la gestione della distanza sociale e il monitoraggio della malattia. (stammi lontano che tu hai la peste).

Queste considerazioni, preliminari ci portano a concludere che le città sono chiamate a predisporre nuovi scenari e che quelle che non riusciranno a rispondere alle nuove necessità potrebbero perdere di competitività fino a scomparire. C’è sicuramente una dimensione globale, europea, planetaria, nazionale e regionale – che dovrà proporre strumenti- ma la storia insegna che la città sono chiamate a sviluppare soluzioni contestuali. Questa è la sfida delle comunità locali. Lo dimostrano le mappe della diffusione in Italia e all’estero, che mettono in discussione il nostro modo di stare nel pianeta terra.

Allora sembra evidente che le comunità locali devono immediatamente predisporre dei piani di rilancio. Lo devono fare guardando all’innovazione, all’inclusione, alle pari opportunità e alla competenza. Lo possono fare creando dei gruppi di lavoro e di ricerca di alto livello per individuare e gestire il “dopo” che è già oggi. Serve correre. Ma serve ascoltare, rimettersi in discussione, uscire dai recinti amicali e d’interesse personale. Servono le migliori energie umane per uscire dalla paura. Serve creatività, lungimiranza, capacità di accettare i cambiamenti e credere in se stessi. Senza aspettare la manna che viene dal cielo. La storia più recente ci restituisce un quadro diverso in ambito locale. Dilettantismo, improvvisazione, mancanza di una regia forte, rancori rimbalzanti, apatia, rassegnazione, teatralismo. Ma se manca la consapevolezza di ciò, le reazioni sono scomposte e la pianificazione mancante. Quindi la morte della città o al massimo la sua lenta agonia verso la scomparsa. Informatici, economisti, sociologi, architetti, commercialisti, ingegneri di gestione, teologi, storici, medici, produttori, ecc. dovrebbero immaginare insieme, l’armatura del rinnovamento locale, coerentemente alle indicazioni generali, ma esaltando l’originalità di questa terra.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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