Bimba uccisa, la bugia del rapimento e la confessione della madre: “L’ho uccisa io. Non ero in me”. Il corpo in una fossa tra le ginestre

Bimba uccisa, la bugia del rapimento e la confessione della madre: “L’ho uccisa io. Non ero in me”. Il corpo in una fossa tra le ginestre

Elena del Pozzo, 5 anni a luglio, è stata uccisa in un assolato pomeriggio siciliano e per una notte intera il suo corpo è rimasto affidato all’abbraccio dell’Etna:

è lì, in un campo incolto di Mascalucia alle pendici del vulcano che sputa fuoco e vomita lava da due anni, che Martina Patti aveva tentato di scavare tra le ginestre una fossa, però troppo piccola per contenere il corpo, infilato in una matrioska di sacchi neri, la propria figlia senza vita.

La fandonia del sequestro da parte di «uomini incappucciati» è stata smontata al mattino, in un’operazione di demistificazione preceduta da una fila di auto dei carabinieri che poco prima delle 8 si erano dirette da Catania verso Mascalucia, attraversando paesini costruiti sulla lava e con la lava. Qualche posto di blocco qui e lì, forse per ingannare la donna e soddisfarla nella sua tesi del sequestro. Poi, verso le 10, è arrivata la svolta: i carabinieri decidono la perquisizione nella casa di via Euclide 55, vanno lì con la donna e con il padre di lei. Martina cede, comincia il crollo: indica al padre dove si trova il corpo e il padre, sbiancando in volto, riferisce la cosa ai militari. Elena, un paio di pantaloncini gialli corti e una maglietta bianca prima di morire per volontà di chi più di tutti avrebbe dovuto proteggerla, era lì: in un’area che costeggia via Turati, lungo una strada che corre su verso il vulcano, a due-trecento metri da via Euclide 55. Non è ancora chiaro se la bambina sia stata uccisa nel campo o in casa, dove ancora devono essere fatti i rilievi scientifici: due, tre, quattro coltellate al collo, alla parte alta della schiena, dietro l’orecchio.

Elena conosceva bene quel campo, hanno spiegato i carabinieri, perché ci andava spesso proprio con la madre a cercare verdure, fiori, le ginestre: quei fiori gialli che resistono alla lava, alla leopardiana natura matrigna, quelle di «campi cosparsi di ceneri infeconde, e ricoperti dell’impietrata lava, che sotto i passi al peregrin risona; dove s’annida e si contorce al sole la serpe». La «serpe» di Martina era la gelosia. Con Alessandro del Pozzo aveva avuto questa figlia, che però, nonostante il suo sorriso e la voglia di vivere, non aveva dato loro l’opportunità di una pace, di una tregua che, tra mille preoccupazioni, i figli danno ai genitori separati in una guerra spesso latente. «Infelicità»: è il termine usato dai carabinieri per definire la relazione tra i due, che da quando si erano separati avevano allacciato nel corso del tempo rapporti con altre persone. Ciascuno per la propria strada, ma uniti per il bene di Elena: non è andata così.

Si era messo di traverso anche un guaio giudiziario in cui Alessandro era finito, accusato di una rapina che non aveva mai commesso. Martina, nella sua premeditazione dell’omicidio, aveva inserito nella fandonia anche questo elemento: gli uomini che avevano sequestrato la figlia, lo avevano fatto per punire il padre, che si era messo in testa di cercare il vero colpevole di quella rapina. La trama sconnessa ha retto poco tempo, sostenuta solo dal mugghiare dei social, che da ieri rilanciavano la bufala del sequestro all’urlo – legittimo, sacrosanto – di «Non si toccano i bambini» ma senza davvero riflettere sull’inconsistenza del piatto offerto dalla madre.

Quest’ultima, invece, è apparsa subito agli investigatori, che si sono chiesti perché Martina non avesse chiamato il 112 per avvertire del sequestro, invece di perder tempo a recarsi in una caserma che dal luogo del sequestro, l’asilo in via Piave, è distante. E poi, le telecamere di videosorveglianza nella zona non avevano inquadrato alcun «gruppo armato». A essersi armata era stata solo lei: di coltello, zappa e pala, questi ultimi due arnesi procurati prima di prendere la figlia all’asilo, dove al mattino l’aveva portata la zia. «Voleva bene alla bambina – hanno raccontato la sorella del padre e la nonna paterna – ma una volta dovemmo tirarla via dalle sue braccia perché l’aveva picchiata».

Un fiume in piena, è stato il racconto delle due donne ai giornalisti, sul quale è necessario fare la tara della comprensibile rabbia. «Non risultano – hanno affermato i carabinieri – atteggiamenti violenti tenuti in passato dalla donna contro la figlia». Cosa è successo, allora, ieri mattina? Cosa è scattato nella mente di Martina? Forse, aggiungono ancora i militari, una espressione di gioia di Elena nel vedere la compagna del padre: Martina aveva paura che la figlia vi si affezionasse? Lei nega, nega con decisione questo movente, limitandosi a dire: «Non ero in me». Il suo avvocato chiederà una perizia psichiatrica. Quella pala e quella zappa, però, sono lì a indicare ai magistrati una premeditazione, una cura nello svolgere il lavoro che si era prefissa: uccidere la figlia e lasciarne il corpo tra le ginestre, nel sole di un’estate siciliana che inizia e in cui i bambini dovrebbero imparare la vita all’aperto: il mare, la montagna, i giochi spensierati. Elena, che ha `dormito´ una notte in un campo di ginestre sotto lo sguardo dell’Etna, non vedrà tutto questo.

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