Le città scomparse che vivono ancora nella nostra memoria: ogni generazione ne custodisce una

Le città scomparse che vivono ancora nella nostra memoria: ogni generazione ne custodisce una

Le città sono ricche di memorie.

Le città scomparse che vivono ancora nella nostra memoria: ogni generazione ne custodisce unaStratificano ricordi che spesso diventano collettivi. Ogni luogo potrebbe raccontare mille storie, lontane nel tempo o prossime alla modernità. Un atlante iconico fatto di piazze, strade, vicoli, chiese e palazzi. Nobilitati dalla storia, dalla letteratura, dalle arti. La città (costruita e coltivata) accoglie questo patrimonio, costruendo identità mutevoli e cangianti, quasi plastiche come se ci fosse un’altra città; come se ci fossero più città, che coesistono sullo stesso spazio fisico. Una sovrapposizione di piani della memoria, tematici, qualche volta personali ma spesso collettivi, condivisi quasi in silenzio da precise generazioni.

Queste città della memoria – trascendenti e nostalgiche – sono la ricchezza di una comunità. Sono le tracce urbane della nostra dimensione onirica. Sono il segno di un’epoca, di un momento, di un periodo, che può rappresentare una porzione di felicità conservata nei ricordi. Le troviamo ovunque, in ogni anfratto, dentro ogni spazio. Sono città lineari, costellazioni di ricordi, o isole sperdute nella contemporaneità. Appartengono a ognuno di noi e si sostanziano attraverso aneddoti, racconti che spesso diventano leggende.

Ogni generazione, in ogni sua fase della vita, costruisce queste città immaginifiche che qualche volta coincidono ma che spesso divergono per forma e significato.

Le città scomparse che vivono ancora nella nostra memoria: ogni generazione ne custodisce unaLa stessa strada può riportarci alla corsa dei cavalli o alla prima passeggiata con la donna amata. Lo stesso vicolo può essere il teatro di un bacio o le storie di una vecchia bottega del vino in tempi diversi. Il paesaggio – delle città e delle campagne – è cambiato. Dove prima c’era l’emporio alimentare oggi un negozio cinese, dove prima c’era la scuola oggi c’è la biblioteca; dove prima c’era un giardino, oggi c’è un palazzo alto come il cielo. Metamorfosi infinite che hanno modellato lo spazio ma nello stesso tempo declinato diversamente i ricordi.

Anche le distanze sono cambiate ma anche il desiderio di percorrerle.

Qualcuno ricorda di quando usciva da casa per andare in chiesa. Percorreva una lunga via segnata da tappe rituali: il giornalaio per le figurine, il bar per il cornetto, poi l’incontro con gli amici per condividere l’ultimo tratto prima di conquistare un posto sulla panca di legno vicino al coro. Una liturgia semplice che oggi è stata sostituita radicalmente con mezzi sempre più veloci e asettici. Quel camminare era anche esplorare, vivere, sentire la città come la propria. I profumi delle case, il suono delle campane, i colori dei pani stesi al sole. Quante città possono esistere se sommassimo tutti i ricordi? Dove oggi c’è un garage, c’era la prima pizzeria del paesino che ospitava la nostra infanzia; e il ricordo di quella pizza è ineguagliabile, almeno cosi la vogliamo immaginare. Un esercizio di riaffioramento progressivo fino a ricordare i personaggi che hanno reso unico quel luogo.

Quando ci fermiamo a ricordare è come se disegnassimo una nuova città, la nostra, anche se in qualche parte è condivisa con tanti altri. La disegniamo per raccontarla a quelle persone che non l’hanno vista mai, perché troppo piccoli o perché lontani; la disegniamo per farla rivivere, per marcare fisicamente ogni spazio afferendolo a noi stessi. In questo momento stiamo pensando alla nostra città immaginifica, la scoviamo nelle segrete stanze della memoria e magicamente rivediamo ogni scena attingendo al passato anche tentando una ricostruzione originale.

Una delle discriminanti di questa esperienza è la velocità e la modalità di attraversamento dei luoghi e la capacità di ricordare.

Le città scomparse che vivono ancora nella nostra memoria: ogni generazione ne custodisce unaMa può questo esercizio sinestetico incidere sulla forma della città del futuro? Lontani da un tentativo nostalgico di riportare l’orologio indietro nel tempo – azione luciferina e inopportuna – possiamo invece ricostruire alcune tracce – sul piano espositivo, didattico e storico – per offrire una narrazione della città, per le future generazioni. Magari individuando o riattivando modalità dell’attraversamento più compatibili al recupero della memoria (di cui ne abbiamo bisogno, oggi più che mai). Offrendo l’opportunità di coniugare un futuro ecologico con le tracce invisibili che strutturano la città.

Non si tratta di raccogliere le nostalgiche leggende degli anziani – di quelli seduti nelle panchine delle piazze – ma di costruire un’armatura culturale che può guidare i processi di pianificazione, innestando tutte le modernità di cui ha bisogno una città senza rinunziare alle tracce sottili con cui abbiamo costruita la nostra civiltà. Più che un museo puntuale della città, un museo diffuso che diventa parte della quotidianità. Forse un modo di guardare diversamente l’urbanità, trasformando le metamorfosi dei paesaggi in letteratura. Forse un modo per recuperare il tessuto commerciale e sociale che si desertifica sull’altare della velocità di attraversamento, forse un modo per recuperare le aree marginali e periferiche della città riconsiderando le storie che nascondono.

Persino quella periferia, oggi, nasconde i ricordi delle serate passate a fare all’amore, di nascosto, al buio, dentro le macchine rivestite di giornali; dove oggi c’è un marciapiede senza nome che definisce una strada senza meta, un tempo c’era la meglio gioventù di quel paese che sfiorava una felicità in apparenza senza fine. Possiamo così ritrovare il senso di una piazza, le ragioni di una strada, il significato di un portone, la necessità di una passeggiata.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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