Sanremo, siamo noi quell’atlante di storie viste in tv: l’arte è il sentiero per comprendere meglio

Sanremo, siamo noi quell’atlante di storie viste in tv: l’arte è il sentiero per comprendere meglio

Il Festival di Sanremo è finito tardi, nella notte. Tanta musica e tanti spunti di riflessione, spesso conflittuali e provocatori.

Sanremo, siamo noi quell’atlante di storie viste in tv: l’arte è il sentiero per comprendere meglio Lo spettacolo non era solo quello televisivo, sui social, tutta l’Italia era impegnata a commentare il Festival della musica italiana e le sue declinazioni politiche e culturali sul palco dell’Ariston. Nello stesso momento in altri luoghi del mondo si scava a mano per salvare i sopravvissuti del terremoto turco-siriano o si scappa nei rifugi antiaerei per paura dei missili russi che bombardano ancora oggi l’Ucraina.
Uno scenario contraddittorio, stridente, che amplifica lo scontro dialettico sui social e disorienta lo spettatore. C’è la tentazione di voler giudicare a tutti i costi o di dover necessariamente esprimere una valutazione etico-morale. Il contrasto tra la frivolezza e la crudezza delle notizie ci obbliga a interrogarci non tanto sulla forma – spesso forte e invadente – ma sul merito dei messaggi che si insinuano nelle nostre menti facendo emerge la paura di vivere in un mondo che non riconosciamo più. Un mondo che esiste davvero e che spesso è nascosto sotto le foglie, nelle giornate di vento.

Il punto di vista che determina la misura della questione, quello su cui dovremmo concentrarci, è il messaggio dell’attivista italiana di origini iraniana, Pegah Moshir Pour, che denuncia l’impossibilità – in Iran ma non è l’unico paese – di manifestare liberamente le proprie idee, privando gli uomini e le donne iraniane, di ogni diritto umano. L’impossibilità di esprimersi, la privazione delle libertà personali e collettive è il tema centrale su cui riflettere. L’idea stessa di libertà di espressione, per definire se esiste un limite, una modalità compatibile che tenga conto del contesto culturale, delle tradizioni etico-morali, del rispetto dell’altro. Il confine è fragile, tra l’esigenza di vivere in una zona di confort, protetti dalle consuetudini e le pulsioni verso nuove modalità della convivenza sociale. E non possiamo nemmeno dire che sia la prima volta. La nostra società, a tutte le latitudini, si è evoluta, forse è meglio dire trasformata, spesso tornando sui propri passi. Ogni generazione ha un canone e vive in maniera conflittuale il passaggio di stato. Regressione? Malformazione? Decadenza? La sensazione è che le manifestazioni – anche eccentriche a cui abbiamo assistito – sono la febbre e non l’infezione. Resta il fatto che “rispettare” gli altri non significa appiattirsi o subire passivamente. Quindi ci sta anche la possibilità di dissentire da ambo le parti. Fin quando questo è possibile, stiamo vivendo dentro una democrazia accettabile.

Sanremo, siamo noi quell’atlante di storie viste in tv: l’arte è il sentiero per comprendere meglio Sulla sessualità, il Festival ci vuole dire qualcosa; se tutti si appellano all’amore, alla necessità di amare liberamente, credo che qualche domanda dobbiamo farcela. Sul nostro rapporto tra il sesso e la sua espressione pubblica c’è qualcosa da ridefinire, forse da riconfigurare. Quella intimità e riservatezza a cui siamo abituati, sembra essere messa in discussione dalla spettacolarizzazione del “bacio” che appare come un mostrare pubblicamente il nostro lato più nascosto. L’arte – attraverso la rappresentazione della vera natura – ci ha offerto infinite volte questo tema, qualche volta per emozionarci e altre per provocarci. Dai baci di Klimt a quelli di Canova, da Picasso a Fidia. Sessualità, corpi, amori mitologici e maliziosi. Come tante espressioni del ‘900. Ma si tratta di “rappresentazioni” come quelle che oggi sono presenti nell’arte cinematografica e televisiva. Quello che ci fa paura è la verosimiglianza della rappresentazione. L’idea che la narrazione del sesso sembra verità. Sotto i nostri occhi. Al netto del buon gusto – la colazione sull’erba di Manet era uno scandalo pornografico – e dell’opportunità, c’è da chiederci se non si tratta di imbarazzo più che di altro. Resta il fatto che posso sempre spegnere la tv e guardare altro.

Ma dentro quel contenitore che è stato il Festival di Sanremo c’è tanto altro, c’è l’album fotografico di questo momento che propone tanti temi su cui ragionare: la maternità mancata, il corpo mercificato, la guerra inutile e la tragedia del terremoto che fa più paura. C’è anche il riconoscimento per quelle gigantesche figure artistiche che hanno fatto la storia della musica italiana, quella necessità di averle sul palco forse per l’ultima volta. Ma guerre e terremoti sono lo schiaffo più potente. Quello che finita la festa ci obbliga a prendere una posizione, altro che bacio a Fedez. E in questi giorni assistere al dramma dei lavoratori stagionali, accampati sotto la pioggia e il vento, in attesa di un lavoro occasionale mi scandalizza molto di più, mi fa più paura di tante altre cose. E l’impegno dei volontari che a Paternò si sporcano le mani e regalano il loro tempo per riscaldare gli uomini soli, sono un messaggio chiaro che questa società ha grossi margini di miglioramento e per questo bisogna essere ottimisti. Questa forma di amore lontano dai teatri è cosa buona e giusta.

Argomentare e non urlare. Ascoltare, analizzare, senza aggredire. Più che giudicare serve capire, comprendere, le ragioni di tutti e mitigare, anzi rassicurare e confortare. Rispettarsi, senza strafare, anche in amore. La convivenza sociale deve offrire, all’interno di un canone provvisorio e mutante, l’esercizio dell’emozione. Non la prevaricazione o l’imposizione e la libertà personale finisce quando intacca quella dell’altro. Ma l’arte è il sentiero che dobbiamo percorrere per capire la nostra storia e come abbiamo raccontato l’amore nei secoli. Forse tante cose ci farebbero meno paura e chi “urla” la necessità di esprimere la sua sessualità, riscoprirebbe una certa “naturalezza” che riconcilia con l’umanità. Senza dimenticare che in passato c’è stata sofferenza e discriminazione.
Insomma, un festival emozionante dove dentro c’era tutto il nostro mondo e che ha parlato con tutti, anche provocandoci e inducendoci a riflettere. Se abbiamo reagito, se ci siamo indignati ed emozionati, se abbiamo dovuto cercare nuove risposte e consolidato i nostri ideali, il festival ha svolto il suo compito di stimolo e conforto. Noi siamo quell’atlante di storie che abbiamo visto in TV. Ma da oggi dobbiamo esercitare con coerenza il nostro modo di vivere e praticare l’idea che abbiamo dell’amore.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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