San Cristoforo, il quartiere tradito e dimenticato di Catania

A sud di Catania, del suo centro storico, un quartiere fa spesso parlare di sé. Come una città recintata, come un’isola, stratifica ogni genere di complessità: sociale, culturale, economica. Uno di quei quartieri che potrebbe ospitare la sceneggiatura di un film di Tarantino. Dentro quel dedalo di storie, prevale l’immagine di un quartiere degradato e abbandonato.
Si sono stratificate nel tempo tanti segni, a partire dall’ ippodromo romano, che disegna una parte del tessuto urbano; o la villa Scabrosa del Principe Biscari e del suo reticolo a scacchiera; per non parlare dalla lava del 1696 che lo ha modellato e del torrente Acquicella che ne costituisce un limite.
Dentro tutto questo sembra che: via Plebiscito, carne di cavallo, “cavadduzzu”, corse clandestine di cavalli e ippodromo romano scomparso, siano i fili sottili che legano le cose nel tempo, e che restituiscono la ragione più profonda del genius loci. Saranno coincidenze?
Certamente, come ci dice Salvatore Calogero, il quartiere è stato tradito. Prima immaginato come luogo di residenza da una borghesia produttiva, che intendeva abitare quella parte di città, almeno fino ai primi anni del ‘900, insediando tra l’altro anche le attività produttive, per poi spingersi verso l’attuale zona del Tribunale, abbandonando a se stesso l’embrione di questa parte di città. Tutto questo ha generato una perifericità irreversibile, almeno fino ad oggi.
Del vecchio San Cristoforo rimane l’impianto urbano e una forte connotazione morfo tipologica che potremmo sintetizzare con il termine “incompiuto”.
Oggi, è necessario riflettere sulla possibile rigenerazione del quartiere, adesso che è in elaborazione il PUG e in questo senso Biagio Bisignani, (direttore dell’area urbanistica del comune di Catania) che governa questi processi, sta cercando di sostenere le riflessioni in tal senso.

Il tessuto urbano è attraversato dalla linea ferrata che collega il sud del territorio – aeroporto, bicocca, più a sud a linea verso Siracusa, Caltagirone, Enna – e il territorio settentrionale che porta, lungo la costa, fino al porto grande, alla stazione centrale, ai porticcioli di Ognina, al nodo autostradale per Messina. In parte sotterraneo (in prossimità di Castello Ursino), il tracciato è oggetto di alcune proposte di modifica da parte delle Ferrovie dello Stato. Ma questa porzione di città, come una cerniera, unisce il centro storico e la linea della Playa di Catania. Si lascia attraversare dalle reti stradali, connette l’aeroporto al porto, è il terminale della mobilità stradale alla scala geografica, è solcato dall’acqua e dalla lava.

All’interno del suo perimetro ideale, troviamo due aree risorse importanti: il cementificio e quello che si ricaverebbe dalla dismissione dell’area ferroviaria di Acquicella porto. Ma nello stesso tempo, è da considerarsi una risorsa l’edificazione incompiuta nelle “insule” del suo tessuto più interno. Spesso sono isolati, il cui programma costruttivo originario è stato stravolto e  mai completato. Le direttrici est-ovest del torrente a sud e del limite morfologico a nord (la linea delle lave del 1696) costituiscono i segni con cui la natura ha posto le sue condizioni, anche se l’uomo tenta di ricondurli e ridisegnarli più volte. Da una parte il reticolo regolare del primo impianto, dall’altra l’irruenza della linea naturale con quelle tracce di sottosuolo archeologico che emergono in superficie sotto mentite spoglie. Il patrimonio di piccoli e grandi capannoni – dal carattere effimero e degradato – sono un campo di riflessione sul loro futuro e sulla loro riconversione.

Cosa farne di questo quartiere? Quale la sua possibile funzione futura? Non si può non fare una valutazione più sistemica che vede questa parte di città come protagonista della rigenerazione complessiva del territorio. Prima di tutto c’è la necessità di far assolvere la sua funzione di cerniera, tra le parti della città, una porta tra il tessuto storico con i suoi monumenti e le sue polarità con le reti della mobilità urbane e geografiche. Il quartiere può assolvere – nei suoi possibili strati altimetrici – le tante funzioni che devono governare gli attraversamenti della mobilità, ritrovando un nuovo rapporto con il porto ad est e la campagna urbana ad ovest. I temi della trasformazione possono essere quelli afferenti alle polarità sportive, turistiche, produttive hi-tech, artistiche contemporanee con una particolare attenzione alla visione ecologica e sostenibile nell’uso dei suoli. Anche la dimensione archeologica e antropologica andrebbe governata attraverso la realizzazione di un distretto street food ad hoc.

Serve una strategia complessiva, una riflessione che ponga come prioritario la possibilità di realizzare una stazione della ferrovia dello stato che renda questo quartiere parte di un più ampio programma di mobilità, collegando FCE con FRI. Un piano strategico che faccia uscire questa zona dall’idea del ghetto e trasformi le criticità in opportunità. Creando corridoi d’intervento pubblico per stimolare l’investimento privato, incoraggiandolo. Un patto tra le parti: università, enti comunali, aeroportuali e portuali, con il tessuto socio culturale del quartiere e le parrocchie. Il tema della sua trasformazione potrebbe diventare il pretesto per avviare una fase di incubazione che la ricerca e i progetti possono incentivare. Un laboratorio di progetto urbano che declini le istanze della sostenibilità, dell’ ecologia, della ricerca. La nuova stazione ferroviaria merita un approfondimento e costituisce il pretesto per rigenerare questo quartiere che potrebbe essere una grande opportunità per tutta la città e oltre. Ma serve un progetto sperimentale architettonico alla scala urbana, in sinergia con gli enti incaricati della pianificazione.

Questa è la strada che si deve intraprendere per uscire da una logica di piano orizzontale e bidimensionale. Un approccio sistemico e di rete, che guarda con distacco scientifico ma con una certa curiosità, le istanze che provengono dalla comunità, dalla storia e dalla natura. Una straordinaria occasione per parlare di natura, alberi e natura, senza rinunciare ai programmi di riuso intensivo. Un nuovo rapporto tra suolo e architettura? Forse l’esaltazione del concetto di attraversamento. Non si tratta di prevedere un nuovo recinto, una romantica riqualificazione. Le attenzioni progettuali, la difesa della stazione all’interno del quartiere, il coinvolgimento della comunità, la necessità di attrezzare e incubare interventi a carattere pubblico come utili per trascinare i processi di riqualificazione priva tra sono tra le priorità da perseguire. Sarebbe interessante sentire i portatori di sapere e di interessi in questo senso, per capire meglio il perimetro di lavoro possibile, ma serve nello stesso tempo un palinsesto di opportunità che solo un esercizio didattico può affrontare con il giusto distacco e proporre alla gente. Serve una riflessione che neghi il recinto a favore della costellazione per elaborare un progetto di sistema più ampio.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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