L’urbanistica è entrata nelle case degli italiani.
Il caso Milano è uno dei tormentoni dell’estate e tiene banco nelle conversazioni di tanti, specie degli architetti “condotti”, quelli che vivono sul campo le questioni tanto declamate dalla stampa. È facile ascoltare, tra i corridoi dei supermercati e nei lidi a mare, discussioni accesse e contraddittorie sulle ragioni che hanno scatenato lo scandalo dell’urbanistica a Milano.
Contrari, favorevoli, garantisti, puritani. Gli architetti di tutta Italia sono – per convenienza o per ideologia – schierati da una parte o dall’altra. Li riconosci tra la folla per quello strano linguaggio utilizzato e per la veemenza con cui si attaccano alle loro convinzioni. Tra un bombardamento a Gaza e un dazio che aumenta all’improvviso, loro, gli architetti, preferiscono il tema dell’urbanistica, finalmente al centro del dibattito nazionale. Finalmente la parola urbanistica è al centro degli interessi di tutti, persino del bagnino del lido e della cassiera del supermercato sotto casa.
Ma rientriamo nella vicenda, esploriamo altre possibili declinazioni, intrufoliamoci nelle viscere del caso, come investigatori e confessori. Qualcuno sostiene che in fin dei conti hanno fatto bene – Sala, Boeri & C. – che le norme sono sempre troppo restrittive e spesso usate malamente dai funzionari pubblici. Qualcuno sostiene che bisogna andare oltre e che la bellezza della città – come nel Rinascimento fiorentino – è il risultato di azioni simili a quelle milanesi. Qualcuno sostiene che estromettere alcune categorie sociali dalla città “belle” è una condizione accettabile e che sarebbe utopistico pensare diversamente. Insomma, qualcuno dichiara che si dovrebbe costruire dove e come si vuole e per chi si può permettere tale qualità dello spazio. E il pensiero corre subito alla “deregulation” di Margaret Thatcher, utile nel breve tempo ma devastante nel lungo, causa di diseguaglianze sociali ed economiche e concausa della crisi finanziaria mondiale del 2008.
Le prospettive sul piano dialettico – dal supermercato o dal lido – sono ovviamente diverse. La prima sembra più legata alla contingenza economica e l’altra a quella contemplativa. Gli architetti che discutono, in base alle loro frequentazionidel momento, possono avere diverse visioni e determinare direzioni divergenti, almeno in teoria. Rimane la consapevolezza che un punto di incontro si trova sempre. L’esperienza e la formazione sono determinanti, ma direi anche la consapevolezza del ruolo – come architetti – è determinante.
È proprio da questa consapevolezza che sarebbe utile ripartire. In particolare, dall’etica del mestiere dell’architetto che in questa vicenda ha un ruolo. Non è immaginabile che questo mestiere non ci sia una morale che guida le azioni progettuali. Lo dice più volte lo stesso Renzo Piano, nel suo libro, “La responsabilità dell’architetto” della PassigliEditore del 2022, o lo stesso Giuseppe Campos Venuti – come ci suggeriscono dal banco frigo. L’architetto è un mestiere non solo tecnico-artistico, è anche politico. Le sue scelte – spesso condivise – hanno una ricaduta sul piano etico e morale, più di quanto si possa credere. Le sue scelte o le indicazioni strategiche che propone al committente (pubblico o privato) hanno conseguenze nel breve e nel lungo termine, sono invasive ed evidenti, possono determinare la morte o la nascita di una filiera economica, la valorizzazione di una materiale e di un territorio, la creazione delle condizioni di sviluppo o di regressione. Forse non è visibile a tutti ma è cosi.
La politica e l’urbanistica sono campi in cui l’architetto vive e produce. Decidere di progettare città inclusive, solidali, accessibili, significa disegnare un futuro diverso, significa determinare una precisa linea d’azione, significa dare un preciso carattere alla città. Per tutti i suoi abitanti e non solo una parte. Il disegno che ne deriva può o non può creare perifericità, marginalità. Oggi più che mai, è necessario lavorare per rafforzare e sostenere i “policentrismi”, la città dei valori sociali e dell’accoglienza. Tutto questo ha un costo, e questo costo deve essere in parte sostenuto dalla collettivitàe in parte dai singoli investitori privati. Bisogno disegnare una città che sia un’opportunità, sia per gli abitanti che per gli imprenditori, trovando un equilibrio che usi il “progetto” come strumento, il “piano” come metodo, l’”etica” come misura di riferimento e raffronto.
Immaginare uno scenario dove elaborare le strategie, individuare i progetti e derivare le norme – sempre dopo l’analisi multi disciplinare dell’ambiente e dei paesaggi, potrebbe essere la strada giusta per superare quella cultura normativacentrica che ha ingabbiato il progetto di architettura e di città. La qualità dello spazio non può essere in esclusiva alle categorie sociali ed economiche più dotate. L’abitare deve essere un diritto di tutti e questo non è “comunismo” ma umanesimo. Non serve citare per l’ennesima volta Papa Francesco e la sua Enciclica Laudato Sii, ma forse è meglio ricordarla.
Le perifericità, abbandonate e private della qualità necessaria, diventano incubatoi di devianze, di delinquenze, di malessere sociale che esplode nel terrorismo, nella mafia, nella disperazione. Vogliamo vivere in città recintate da mura a protezione della “nostra” condizione di privilegio? Ne faccio una questione di opportunità. Possiamo pensare che usare il suolo, comunque e ovunque sia utile all’economia e all’ambiente? Non sarebbe meglio puntare su strategie più concrete per risolvere le necessità dell’abitare, nel rispetto della storia e della natura? La deregulation è la strada giusta?Siamo sicuri che la soluzione è negli opposti: comunismo e liberismo? Esiste una terza via, più faticosa ma eticamente più accettabile? È forse una questione di pigrizia intellettuale?
Per questo, per queste azioni, sono convinto che serve una riforma urbanistica che tenga conto di quanto sopra, che medi le giuste tensioni imprenditoriali con i bisogni collettivi. Che riporti al centro il progetto di architettura (Aldo Rossi, prega per noi) come strumento di governo della città. Bisogna riscrivere il lessico afferente al tema della sostenibilità, che non può essere solo e sempre ostentazione di formule “strane” di architettura, sostenibili per finta. Questo non esclude le grandi opere iconiche, come fu per le cattedrali gotiche, ma la città ha bisogno di normalità, di efficienza, di spazi che inducano alla felicità. Forse il modello Milano ha perso il suo carattere originario? Forse la corsa all’oro ha sviato la via? E finiamola di etichettare come comunista, qualunque cosa assomiglia all’etica sociale e urbana.
Dal lido è tutto, per adesso. Aspettiamo con ansia la replica dal supermercato. Discutere di queste cose fa bene a tutti.
