Le città rischiano di diventare sempre di più solo dei “parchi” tematici.
Luoghi specializzati ad accogliere precisi consumatori, ad esempio del cibo, della cultura, della salute o della spiritualità. I social sono diventati gli strumenti, non solo per apparire (esistere) ma soprattutto per omologarsi. La condivisione di liturgie urbane, di mode e tradizioniglobalizzate, produce prevalentemente un appiattimento e qualche volta una latente frustrazione collettiva.
Le città non sono tutte Taormina, Venezia, Milano e Roma.
Non siamo tutti come i borghi del Salento o delle Cinque terra. Ogni città ha precise vocazioni, particolari valori e spesso potenzialità da sviluppare. Avere consapevolezza di tutto ciò significa trovare la giusta strada per essere felici come comunità.
Una certa cultura tecnicista ha tentato di indirizzare, secondo logiche oggettivizzanti, lo sviluppo di parti di città. Le tensioni imprenditoriali, verso i grandi progetti trasformativi – sul modello Milano. Le spinte commerciali della grande distribuzione verso la centralità dei grandi centri, nelle periferie urbane. Poi le polarità sanitari, industriali e sportive. Abbiamo prodotto tante città specializzate in qualcosa come isole e tra di esse in competizioni per lo stesso target. Bisogna “sentire” oltre che “calcolare.”
I social, i viaggi, la Tv e in generale l’accessibilità alle informazioni ha introdotto l’embrione del progresso, ha permesso il miglioramento della qualità della vita, ma nello stesso tempo ha appiattito le differenze, sminuito i regionalismi, accantonato quelle vocazioni sociali e culturali che caratterizzavano le città – diverse tra loro – e persino i quartieri all’interno delle città.
Se da una parte, chi governa la città – politica, imprese, lobby – hanno l’interesse a produrre sempre più grandi parchi tematici come quelli residenziali, commerciali, sportivi e direzionali, guidati dalla logica dei grandi numeri. Dall’altra la città reale, quella metabolica, quella dei piccoli numeri ha bisogno di ritrovarsi, di misurare lo spazio, di sostenere la vicinanza e i rapporti di solidarietà.
“La rete di Trieste”, – esperienza trasversale di formazione politica, di matrice cattolica – ha recentemente individuato cinque punti per definire la sua carta d’identità: giovani protagonisti di tutte le politiche, partecipazione come infrastruttura della democrazia, welfare territoriale generativo e inclusivo, transizione ecologica e tutela del territorio e aree interne e periferie – i nuovi poli dell’abitare. Un palinsesto di temi e direttrici di lavoro che spostano l’asse del dibatto dalle rendite di posizione ideologica – che vedono solo la contrapposizione tra le parti – all’umanesimopragmatico e argomentativo, guidato da un preciso programma etico per l’uomo e le città.
In questo senso, la rete di Trieste, può diventare un laboratorio di comunità per le diverse realtà di questo Paese Italia. Un laboratorio che riparte del vicolo, dalla piazza, dalla via dal quartiere. Da quelle porzioni metaboliche delle città che hanno energie e voglia di riscatto. Ripartire dai presidi della spiritualità, della formazione, degli sport, della politica militante. Riconnettere le città e il territorio, i quartieri e le città, le comunità alla loro memoria verso un futuro accessibile e sostenibile. Tentare di assomigliare a qualcuno che non siamo non funziona. Non significa rinunciare alla modernità, non significa “muoversi fermo”, non significa chiudersi in un recinto; semmai significa trasformare la propria diversità in ricchezza, la semplicità della propria cultura in valore esportabile. Senza quelle frenesie che impone una certa globalizzazione a tutti i costi. Ma serve imparare dagli altri e contestualizzare le innovazioni.
Le città hanno però bisogno di un progetto guida, di una trama, di uno spartito, ed è questo il dovere di chi governa.
Offrire opportunità, strumenti di auto determinazione, di auto sviluppo. Monitorando i processi, incentivandoli e sostenendoli. Una piazzetta nel centro storico di una piccola città; con le sedie portate da casa e un telone per proiettareun film, per tutti; insieme ai lupini e alla gazzosa; all’interno della festa dell’Assunta, organizzata dalla parrocchia di Santa Maria dell’Alto a Paternò – solo per fare un esempio – costituisce un esempio virtuoso di comunità.
Si può essere comunità attraverso l’incontro. Coerentemente alla teologia della semplicità. Incontri nello spazio urbano, adiacenti alla chiesa di Santa Maria di Josaphat – sempre per fare un esempio – La città contiene già luoghi straordinari che accolgono energie virtuose e attivano metabolismi rigenerativi che danno valore alla diversità culturale. ma ci possono essere tanti esempi con tante possibili declinazioni, musicali, culturali, ecc.
La città si arrangia e svela le sue doti (inaspettate) quando intorno c’è il deserto.
In questi momenti drammatici, di disorientamento politico e sociale, ci si organizza. E si ritrovano le antiche liturgie, quelle che non sono compatibili con i post sfrenati dei social, quelli che ci riconciliano con la città e ci fanno diventare una comunità. Piccola, misurata dei piccoli numeri. C’è bisogno dei grandi progetti ma anche delle piccole occasioni per ritrovarsi. Per vedere un film all’aperto in una notte d’agosto. Possiamo presentare un libro, recitare poesie, sentire musica classica e neomelodica, vedere un film, giocare a carte, mangiare il pane condito. Non importa, anche recitare un rosario o giocare a freccette. Quello che importa è che rigenerare significa tornare a nuova vita, a partire dall’uomo. Significa provare a vivere i luoghi, anche con semplicità. Ogni città ha la sua misura, il suo carattere e sarebbe bello girare a piedi tra i suoi vicoli per vivere una sana competizione tra i quartieri. Non tutti siamo Las Vegas.
Quando nessuno pensa a tutto questo, le città, le comunità, provano a fare da soli e quello è l’inizio dell’uscita dal tunnel e non l’inizio del deserto. Le comunità metaboliche e le città rinascono a partire dalla capacità di abitare i microspazi urbani. Le nostre chiese, nei piccoli centri, sono ancora protagonisti di questi processi di rigenerazione. Germogli che nascono dall’impegno di pochi per tutti. Si chiama accoglienza. Questa visione dell’urbanistica ci piace di più di tante altre.
