Il virus ha costretto la scuola a digitalizzarsi: per riaprire serve una nuova qualità dello spazio

La scuola riaprirà. Prima o poi si tornerà in classe, cercando la normalità tra i banchi.

Una delle prime istituzioni a essere chiusa e forse l’ultima ad aprire.

Spesso sottovalutata e denigrata, rimane comunque uno dei più importanti presidi della nostra collettività. Studenti, docenti, dirigenti e tutto il personale scolastico, sono impegnati – con modalità diverse – a far fronte a questa emergenza pandemica, con strumenti e modalità fino a oggi poco esplorati anche se presenti nel quadro delle pratiche didattiche e amministrative, promosse dal Ministero della Pubblica Istruzione e della Ricerca Scientifica, ormai da diversi anni.

L’incidenza dell’intero comparto tra personale scolastico, studenti e genitori, addetti alla mobilità pubblica comprese le attività commerciali ad esso collegato, è enorme, in termini di spostamento della popolazione e di mitigazione del virus. La chiusura delle scuole ha inciso anche nell’organizzazione familiare, costretta – in considerazione che i genitori erano impegnati al lavoro – a modificare le abitudini e le presenze a casa. Insomma un vero e proprio caos organizzativo che ha investito l’intero Paese Italia.

Abbiamo scoperto l’importanza dell’istituzione scuola, la sua importanza nella nostra vita quotidiana e il valore dello stare insieme – dentro quelle aule che spesso non abbiamo apprezzato abbastanza. Oggi tutti desiderano tornare in classe, ritrovare il piacere di guardarsi negli occhi, muoversi tra i corridoi per incontrare i compagni, e i professori, far la ricreazione con il solito panino. Oggi tutti desideriamo ascoltare, dalla viva voce del docente, la lezione, sentirne le sfumature, le inflessioni della voce e percepire gli sguardi inquisitori della “prof” durante il compito di Italiano. Oggi ci piacerebbe ascoltare il docente, mentre cammina su e giù nella classe, mentre gesticola e usa il suo corpo, la sua voce, i suoi occhi, per recitare una poesia, per raccontare una storia, per dimostrare un teorema. La voce metallica della videoconferenza ci comincia a dare fastidio.

Come in tutte le cose, l’emergenza e la necessità hanno obbligato tutti a diventare digitali, anche quei professori che erano riusciti – fino ad oggi – a svignarsela. Per dirla tutta, era ormai da anni che il Ministero promuoveva l’uso della didattica digitale ma tutti noi l’abbiamo trattata come una perdita di tempo, come un modo per non fare nulla, una futile distrazione. Forse era stata presentata male e poco esercitata, persino enfatizzata in un senso e nell’altro. In pratica – esclusi pochi casi – era riposta nel cassetto, presente solo per obbligo formale.

Il professore per sua natura è contemporaneamente, incubatore di innovazione e “passatista” cronico; questa è una delle misteriose contraddizioni del corpo docenti. Ma la necessità ha trasformato tutti in esperti in didattica a distanza (DAD), costretti a smanettare quel misterioso mondo del digitale e la risposta è stata straordinaria, certo con qualche resistenza, e certamente con molte difficoltà. Nessuno era veramente preparato ma nessuno ha lasciato gli studenti da soli. In mille modi, con mille strumenti – da subito – tutti davanti a un pc per costruire una nuova modalità didattica. Anche i più esperti hanno fatto fatica, perché sino ad oggi la didattica digitale, era pur sempre un terreno per pochi e poco diffuso. Certo, c’erano realtà scolastiche più avanti delle altre, ma la scuola italiana sonnecchiava. Non possiamo nascondere questa verità.

Alcune criticità sono comunque emerse. Per esempio la necessità di offrire una linea internet, un dispositivo digitale (tablet o pc), i software e i sussidiari didattici necessari a tutti gli studenti per legge, con costi sociali, se non gratuiti. Questo sarebbe utile per realizzare una vera scuola digitale e forse una vera e propria società digitale. Senza queste pre-condizioni – la scuola e non solo – rischia di accentuare il divario sociale, privando la popolazione scolastica del diritto allo studio e più in generale i cittadini di accedere ai servizi essenziali.

Ma un altro grande paradosso, sarà quello della qualità dello spazio didattico. Quando torneremo a scuola, si chiederà (in nome della sicurezza) di soddisfare alcuni requisiti (teorici), per rispettare le nuove disposizioni in termini di distanza sociale. Quindi turni per gli studenti, per evitare il sovraffollamento nelle classi e sistemi ibridi tra didattica a scuola e a distanza. Sembra la soluzione più ovvia, ma cosa faranno i genitori e tutta la filiera che vive del ritmo della scuola, con queste anomalie temporali e organizzative? Il trasporto pubblico e privato non avrà pace, e saranno stravolte tutte le attività collaterali (musica, sport, arte, ecc.) che gli studenti praticavano. Forse dobbiamo avere il coraggio di dirci la verità.

Così come abbiamo scoperto a caro prezzo, che chiudere gli ospedali periferici (concentrando tutto in mega strutture) è stata una follia (bisognava solo introdurre eticità e razionalità nelle spese, evitando gli sprechi), nello stesso modo, pagheremo a caro prezzo la pratica delle classi pollaio. Aule che sostengono un carico di alunni superiore alle norme igienico sanitarie. Allora, oltre alla digitalizzazione della scuola bisogna lavorare sulla qualità e la sicurezza dello spazio scolastico. Mettere nelle condizioni, studenti, docenti e dirigenti di avere classi con un massimo di 20 alunni, nel rispetto del rapporto tra l’alunno, la superficie dell’aula e i dispositivi aeroilluminanti. La qualità dello spazio equivale alla qualità della didattica che in esso si pratica. Da nord a sud, nelle grandi città e nelle periferie del Paese Italia. Ovunque e subito, Ministro.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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