Il Duchino Enrico e il mistero della cappella di Schettino

Il Duchino Enrico e il mistero della cappella di Schettino

“Ho riposto sull’erba bagnata la mia armatura, la mia spada restituita alla roccia e il mio elmo posto sulla lapide a mia memoria. Vicino una fonte, lungo un sentiero che porta alla mia terra natia. In quella via che uomini e donne hanno solcato per secoli dal mare verso il mare, dal fuoco verso la terra di ponente, dal santuario verso il mio fiume.

Lontano dalla città dei morti, lontano dalle piazze del mercato, lontano dai frastuoni delle feste. Dentro una campagna che profuma di erba amara, bagnata, all’ombra di un cipresso. Le api sono le mie nuove compagne, le spighe danzano per me e l’acqua scorre dentro macchine di pietra fino a toccare l’antico fiume…

Il Duchino Enrico e il mistero della cappella di Schettino Sono passati secoli e solo adesso un manipolo di uomini sfiora la mia ultima dimora. Occhi curiosi e rapaci che scrutano tra le mura di una casa di campagna lungo una strada che disegna le terre coltivate. All’improvviso, dietro una curva, inattesa, una piccola cappella gotica. Un manufatto minuto e bizzarro, con tre cuspidi rivolti verso il cielo, intessuto di finte pietre squadrate con una porta murata e due lapidi bianche di marmo come monito per i passanti. A mano manca, l’urlo misurato di una madre che rivendica il suo dolore e il mistero:

«In memoria del Duchino Enrico Paternò Castello Bruno questa cappella eresse la povera mamma».

A mano dritta le tracce nascoste di una verità:

«O pia gente che passi, deponi una preghiera e un fiore per Enrico Paternò Castello Bruno su questa soglia che eresse un grande dolore e una pia speranza».

Chi era il Duchino Enrico? Perché una cappella eretta solo dalla madre? E perché proprio in quel crocevia di strade abbandonate? Un Paternò Castello, quale?

Il Duchino Enrico e il mistero della cappella di SchettinoNon c’era altra scelta che scavalcare il muro, intrufolarsi dentro quella vecchia fabbrica ormai diruta. Conquistare l’ingresso posteriore attraverso un muro scivoloso e insidioso. Piano piano, sfiorando con le mani le mura, fino a trovare un nuovo accesso di legno marcio, anch’esso serrato. Non rimaneva che proseguire in senso antiorario per scoprire all’improvviso una bucatura laterale, più volte modificata fino a diventare un piccolo varco. Entrati a uno a uno siamo spettatori di una scoperta.

 

 

 

Il cielo era diventato il tetto della casa, le cuspidi della facciata erano le protesi di un vecchio casolare rurale e nell’ambiente erano collocate un altare a ponente di fronte a noi la cosa più inattesa, quasi un macabro rinvenimento, lì ad aspettarci ormai da quasi un secolo, una lapide funeraria con l’immagine di un giovane bello ed elegante dal volto fiero, vestito di giacca e cravatta, dentro uno forma ovale firmata da un fotografo di S. Agata li Battiati – un certo S. Raciti. – con un’epigrafe straziante:

«Per te Enrico mio, mio spezzato giglio, mio agnello innocente, ho eretto questa cappella perché le preghiere che vi si diranno ti diano in cielo la felicità che non potei darti in terra».

Ancora la madre che invoca, ancora la madre che prega, ancora la madre che chiama per nome suo figlio, Enrico. Lo definisce giglio spezzato, agnello innocente. Invoca la sua verginità e la sua discolpa. Giovane e senza colpa. Quale colpa? Di cosa si sarebbe macchiato? La madre sente la necessità di urlare la sua innocenza. Rivendica – senza il padre – l’edificazione di questa cappella commemorativa, un sepolcro rurale.

Invoca ancora una volta la necessità delle preghiere per ottenere quella felicità che Enrico non ebbe nella sua vita terrena. Felicità che non ebbe dalla madre. Un sottile mistero avvolge questa storia. Chi era il padre? Come si chiamava la madre? Che motivo c’era di edificare una cappella in campagna e proprio in quel punto?

Dopo una preghiera e dopo aver registrato ogni cosa, consapevoli delle domande irrisolte, non restava che proseguire verso la strada maestra ma senza rinunciare all’ultima scoperta, uno strano manufatto che inganna per forma e posizione. Una noria? Una cisterna? Una pietraia? Nella giornata dei misteri non c’è altro da fare che scavalcare ancora una volta, dentro una campagna abbandonata e violentata. Dentro una terra che confina con altre terre abbandonate e violentate.

Ancora una volta, questa esplorazione ci restituisce dubbi e domande.

Sembra tutto e il contrario di tutto ma una cosa è certa, il monumento rurale è sicuramente legato al governo delle acque nelle campagne forse con qualche declinazione rituale. Tutto da verificare, non resta che tornare dentro la città dei vivi, tra libri e ricerche, per capire, decodificare, interpretare, consultare.

Come è morto Enrico? Quando? Uno di noi – Watson – ha trovato una traccia, un possibile sentiero investigativo, perché brucia la voglia di capire.

Enrico è il quinto figlio di Giovanni Paternò Castello – pare esperto in progettazione di macchine idrauliche, proprio in quella zona di Schettino – e Maria Stella Bruno. Nobili di antico lignaggio, che si sposano negli anni ’30 del ‘900. Enrico è il più piccolo, preceduto da Gioacchino, Carmelita, Agatina ed Enrichetta. Enrico porta il nome del nonno paterno ma di lui si perdono le tracce.

I genitori sono entrambi nati alla fine dell’Ottocento e il padre muore nel 1950. Si potrebbe ipotizzare che Enrico muore dopo il padre? Spiegherebbe la presenza della sola madre come autrice delle lapidi. Rimane dentro un sentimento di malinconia e romantica nostalgia. Una cappella commemorativa in mezzo alla campagna, in quella campagna che bruciò per mani degli ateniesi mentre, tornando da Centuripe – verso il fiume e poi verso il mare – distrussero le messi di Hybla Major e Inessa, cosi come di testimonia Tucidide.

Una storia ancora da indagare, un mistero da svelare.

 

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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