Catania, ex ospedale Santa Marta. Il progettista Scannella: “Mantenere il fondale e lo spazio aperto come una piazza”

Catania, ex ospedale Santa Marta. Il progettista Scannella: “Mantenere il fondale e lo spazio aperto come una piazza”

Il dibattito sulla trasformazione dell’area dell’ex ospedale Santa Marta di Catania, promosso dal Corriere Etneo, si chiude con l’intervista al progettista dell’opera, l’architetto Giuseppe Scannella.

1) Architetto, può spiegare come nasce il progetto? Quali sono le ragioni che hanno spinto a formulare l’idea architettonica?

Ho dichiarato subito, sin dal momento dell’assunzione dell’incarico, che avrei cercato di contemperare due opposte esigenze: una, quella culturale e metodologica relativa al mantenimento della condizione di “fondale di una corte “ per l’edifico storico e del margine urbano continuo che ha sempre caratterizzato -come testimoniato dalle mappe storiche- il lotto; l’altra, la volontà più volte espressa da vari Consigli comunali, anche l’attuale, che stabilisce la destinazione dello spazio ottenuto dalla demolizione dell’edifico degli anni ’60 a spazio libero, aperto come una piazza deve essere. Due condizioni, ciascuna importante, che non potevano essere non considerate. Da qui, si tratta solo di una delle ipotesi, quella di considerare la realizzazione di un dispositivo architettonico e ottico (un artificio) che consentisse di percepire, da determinate angolazioni visive, l’esistenza di un muro che in realtà non c’è e che servisse a focalizzare l’attenzione dell’osservatore, per un attimo, prima di lasciar passare lo sguardo verso la facciata storica (che ricordo esser già adesso solo parzialmente visibile dalla strada a causa dei patriarchi vegetali del preesistente giardino) cosa che il dispositivo architettonico non altera significativamente anzi, credo porti a concentrare e direzionare lo sguardo.

Di più non vanno dimenticate alcune condizioni che esistono o verranno fuori una volta completata la demolizione: L’esistenza di Piazza Miracoli (anch’essa riportata nelle mappe storiche) la quale ha una sua dimensione-proporzione e identità, anche per le fabbriche che vi si affacciano, per la quale il dispositivo architettonico costituisce al contempo limite e fondale; un’altra determinata dalla messa in luce di un grande prospetto cieco, alto ben oltre 14 mt., sul limite ad est, che costituirà una presenza ingombrate e di risulta; l’altra ancora la presenza, sul margine nord est dell’area di intervento, di incombenti e vicinissimi edifici di inesistente qualità e pessima conservazione che, a seguito della demolizione saranno ben presenti e visibili dal margine stradale (cosa della quale nessuno dice o se ne preoccupa.) Il dispositivo “vela in vetro” – incidentalmente fotovoltaico- vorrebbe costituire un elemento di margine, di focalizzazione dell’attenzione, di creazione di visuali preferenziali anche in direzione est ovest con la sua -si immagina- capacità di delimitare e specializzare lo spazio. C’è ancora la questione dell’alveo stradale (ritorna il margine). Tralascio i benefici in termini di sostenibilità ambientale dati dalla sinergia tra la vela fotovoltaica e il parco, (aumentato nella superficie a verde di oltre il 45%) cosa che consentirebbe di confinare circa 1000 Tonnellate di Co2 e un risparmio economico nella gestione dell’energia necessaria.

E, allo stato, un tentativo, un’ipotesi ancora da definirsi, verificare, se possibile migliorare sotto molteplici aspetti, dalle proporzioni alle dimensioni ai materiali.

E non è la sola: contemporaneamente ne abbiamo elaborato un’altra, altrettanto soggetta ad ulteriori riflessioni e approfondimenti, che non prevede alcuna elevazione oltre il livello del suolo e altre ancora ne stiamo sperimentando. Tutto questo è solo una parte dello studio complessivo, che verte sulla definizione delle aree a verde, quelle funzionali agli usi delle persone, al sistema percettivo delle pavimentazioni. Come si vede, nulla di ancora definito e definitivo ma solo sperimentazioni che dovranno trovare sintesi attraverso il confronto, specie con le autorità preposte.

2) Nei mesi scorsi un collettivo di architetti e intellettuali ha sottoscritto una petizione fondata sulla condivisa convinzione (tra i firmatari) che fare una piazza in quel luogo sarebbe un grave errore, rispetto alla consolidata morfologia urbana. Lei non condivide questo punto di vista?

Mi pare aver risposto in parte sopra. Come dicevo ci sono due elementi di valutazione e decisione ciascuno importanti in dipendenza dei diversi punti di vista. Non dimentichiamoci che un progettista è chiamato a dare risposte a domande, -nel caso sull’uso, la funzione e definizione formale di uno spazio pubblico- che attengono alla responsabilità di chi la città e la società governa. L’obbiettivo nostro, ripeto, è quello di contemperare, al meglio possibile, le due opposte istanze.

3) Quale saranno gli sviluppi di questo lavoro?

Prematuro dirlo e difficile prevederlo: il mio dovere è di mettere in campo ogni energia possibile perché si arrivi ad una soluzione condivisa tra le varie anime e anche con le aspettative dei cittadini, i quali però, devono realizzare che, in ogni caso, su un intervento architettonico pubblico (perché di questo si tratta) la loro volontà -almeno in questo caso- si manifesta anche attraverso le valutazioni e decisioni degli organi politico-amministrativi eletti. Noi siamo chiamati a consigliare, porre domande, rispondere a quelle che ci vengono fatte.

4) Lei è stato per diversi anni Presidente dell’Ordine degli Architetti, Paesaggisti, Pianificatori e Conservatori della Provincia di Catania. Tra i professionisti e non solo si sta manifestando la necessità, sempre più diffusa, di fare affidamento ai concorsi di progettazione nei processi di trasformazione urbana. Lei è di questo parere?

La mia posizione in merito è nota da anni, e anche recentemente, ho avuto possibilità di ribadirla sulla stampa: I concorsi, servono, servirebbero; per essi vale la definizione di democrazia data da Winston Churchill : un pessimo sistema ma il migliore, in determinate condizioni, che si conosca. Che non vale sempre e comunque, che ha forti criticità anche relativamente alle risorse plurimilionarie che ogni anno la comunità dei progettisti mette in campo per garantire (e non sempre ciò riesce) la migliore qualità possibile ad una attività di interesse pubblico; ricevendo in cambio dai beneficiari -Stato e cittadini, specie dal primo- scarsissima considerazione anche con riferimento alle istanze che la comunità pone.

5) Questo progetto può innescare ulteriori dinamiche trasformative (e migliorative) per il centro storico di Catania?

Me lo auguro certamente ma non lo so; per intanto registro il fatto che, con modi non sempre utili o urbani, da qualche giorno parliamo di architettura, lo fanno anche quelli che non ne hanno alcuna conoscenza e spesso a sproposito, ma intanto se ne parla. Poi, come ho già detto, le dinamiche trasformative in essere non vengono determinate dagli architetti, essi, al massimo, possono dare qualche sollecitazione o contributo. Certo è che nei prossimi mesi probabilmente assisteremo a corpose innovazioni funzionali e strutturali di brani di città. E dopo decenni di sostanziale immobilismo ciò non mi pare cattiva cosa. Certo è, altrettanto, che avere un luogo deputato a queste discussioni, ai confronti sereni come un urban center, sarebbe la soluzione migliore. Concordo, in questo senso, con la posizione dell’ing. Maurizio Erbicella. Resto a disposizione per ogni eventuale ulteriore confronto.

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